Dalla corsa ribelle di Antoine Doinel, che fugge dal campetto dell’orfanotrofio e vola libero verso il mare, al sorriso ammaliante di Barbara, che, in un’atmosfera noir anni ’40 riesce a salvare dall’accusa di omicidio l’uomo di cui è innamorata: è racchiusa in queste due scene la filmografia di François Truffaut, cineasta rigoroso ma intenso e vibrante al tempo stesso, che se n’è andato davvero troppo presto. Il regista francese ci lascia autentiche perle, che brillano ciascuna di luce propria e che esprimono, sia pure in un percorso non sempre toccato da picchi di ispirazione, un modo di fare cinema che si distingue per originalità e passione, e che mostra affetto e dedizione per un mestiere incarnato già come vocazione. Il suo cinema, che Truffaut scoprì giovanissimo grazie soprattutto all’incontro con Andrè Bazin, suo mentore e suo grande amico, non esprime punti di vista: l’occhio della macchina da presa, infatti, indaga ma non giudica, lasciando i protagonisti delle singole storie a disputarsi le simpatie degli spettatori e non a giustificarsi o vantarsi di fronte a scelte palesemente fuori ordinanza. Così i capelli a spazzola di Jean-Paul Lead ne “I quattrocento colpi” danno corpo e vitalità ribelli a una figura dallo sguardo triste e malinconico, in cui il regista forse identifica la propria immagine di ragazzino alle prese con disagi familiari di un rapporto conflittuale con la madre Jeanine, “rea” di non avergli mai rivelato il nome del padre biologico. E lo sguardo, anche qui rigoroso e in parte assente, del pompiere Montag di “Fahrenheit 451”, che poi cambia e si anima di spirito militante per resistere al fascismo della controcultura dittatoriale in difesa dei libri e della libertà di opinione, è lo stesso sguardo di chi si ribella al conformismo e all’ammorbamento di una società che di lì a poco sarà sconvolta dal vento del Sessantotto, ma che ancora si scandalizzava per il triangolo amoroso tra Jules, Jim e Catherine, troppo vitale per essere compreso dal bigottismo dell’epoca.

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Struggente e vitale: è questo lo spirito, formale nell’irriverenza e irriverente nella formalità, che anima opere come “Non drammatizziamo… è solo questione di corna” o “Finalmente domenica!”, ma anche episodi non meno trascurabili, come “Le due inglesi” e “Mica scema  la ragazza”, per non parlare di “Baci rubati”, terzo capitolo della saga biografica di Antoine Doinel, alle prese stavolta con il lavoro e l’amore per la bella Christine. Amore, passione e morte sono invece anima de “La signora della porta accanto”, dove la splendida coppia di amanti composta da Fanny Ardant e Gerard Depardieu esalta l’effluvio sentimentale fino a renderlo ossessione e quindi delirio capace di mettere in discussione l’esistenza  stessa delle persone, in un vortice che avvolge e stritola, come fa con la protagonista in “Adele H., una storia d’amore”, che mette in scena l’esperienza di vita della figlia di Victor Hugo.

Effetto notte” e “L’ultimo metrò”, poi, sono senz’altro la summa del cinema truffautiano. Il primo è un film nel film, dove, in una girandola di citazioni che omaggia mostri sacri come Hitchcock e Welles, la crisi esistenziale del protagonista si riflette nella palese incapacità umana di affrontare a volte la realtà se non “applicandole” il filtro blu dell’immaginazione, unico artificio capace di alterare le cose e di renderle superabili. “L’ultimo metrò” è invece un manifesto in favore dell’arte come forma più elevata di libertà, dove le emozioni private dei protagonisti si fondono con la storia pubblica dell’occupazione nazista di Parigi.

Chissà cosa avrebbe realizzato François Truffaut se fosse vissuto ben oltre i suoi cinquantadue anni. Certo, di lui restano testimonianze indelebili di un amore a tutto tondo per la settima arte, un cinema rigoroso e attento, ma al tempo stesso sognante e mai rinchiuso in stereotipi di formalismo. Vivace e libero, come la corsa ribelle di Antoine Doinel e il sorriso ammaliante di Barbara.

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Di Luigi Caputo

Idealista e visionario, ama l'arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia...