La nostalgia senza tristezza del figlio di Giusto e la sua viva rielaborazione del percorso che il padre fece di pari passo con Franco Battiato per formare la coppia più originale del pop (e non solo)
“Hu o la nostalgia dell’amato”, ideato e organizzato da Stefano Pio, presentato in anteprima assoluta il 18 maggio a Milo, è stato un atto d’amore e di giustizia.
Un atto d’amore verso due grandi autori, Franco Battiato e Giusto Pio, padre di Stefano. E di giustizia proprio verso la figura paterna, ingiustamente e colpevolmente dimenticata nel turbinio delle celebrazioni intorno alla figura di Battiato, che proprio in occasione del primo anniversario del suo passaggio ad altra dimensione e ad altra vita sono aumentate di numero, ma non sempre di qualità e di spessore artistico.
Stefano Pio, insieme al suo ensemble strumentale, proprio a Milo, e proprio a un anno dal passaggio del grande autore siciliano ad altra dimensione, irrompe con quella discrezione e quella gentilezza, che sono cifre del suo carattere, ma con pari forza e determinazione a ricordarci chi è stato suo padre e l’importanza che ha avuto nel percorso artistico di Franco Battiato. Andando proprio a casa sua, che con il tempo è diventata casa di tutti i suoi ascoltatori, un luogo ideale di riconduzione e di partenza, e rimettendo le cose in un ordine più chiaro, riportando le cose al loro posto originario.
Il tutto avviene in una meritoria manifestazione organizzata, con amore e competenza – con l’indispensabile aiuto del Comune di Milo, della Pro Loco e del Centro Studi di gravità permanente – da Fiorella Nozzetti, imprenditrice e amica di Battiato, di un’amicizia vera e non delle tante ora millantate da personaggi in cerca di visibilità. Senza alcuna concessione a mode e a quegli egocentrismi che Battiato detestava, la Nozzetti ha organizzato cinque giorni di incontri e concerti sui temi che Franco considerava più elevati e che non a caso sono entrati proprio nella sfera più alta della sua produzione musicale, quella spirituale e intimista.
È in questo solco che si inserisce perfettamente, incastro migliore non poteva esserci, “Hu o la nostalgia dell’amato”.
Il termine Hu (LUI) indica nella tradizione Sufi il Dio trascendente, lontano dall’animo umano che, calato nel corpo materiale, anela per il “ritorno a casa”
Del suo stato originario ed indiviso l’animo umano ha una perenne nostalgia, che non è fine a sé stessa ma è eterna tensione verso la riunione. Ecco spiegata “la nostalgia dell’Amato”, titolo che può chiaramente intendersi anche come nostalgia che proviamo verso l’esistenza terrena e artistica di Franco Battiato e di Giusto Pio.

Il tema su cui scorre l’intera opera, ricca di rimandi e suggestioni, è proprio questa tensione, questa ricerca del proprio creatore e dello stato di unione con lui.
E non è solo una rievocazione di due grandi artisti, perché di Stefano Pio, in questa opera, c’è molto.
Non si tratta, infatti, solo di una messa in scena di cose già sentite tanto per placare la nostalgia dell’amata musica di Battiato-Pio. Si tratta di una rielaborazione che da una parte recupera l’antica scintilla primordiale e dall’altra la colora di elementi nuovi, afferenti agli studi e alle esperienze sulla spiritualità vissute da Stefano Pio. Che per gli strani percorsi della vita non è stato solo colui che ha convinto un inizialmente recalcitrante padre ad accogliere la richiesta di Battiato a insegnargli l’utilizzo dello strumento del violino nella sua musica, prima quella sperimentale e poi quella pop, ma è stato anche uno dei primi suggeritori di certe influenze mistiche provenienti dall’India, dal Tibet e l’Oriente in generale.
Tutto questo non si sa, mentre orde di personaggi non sempre sinceri e non sempre disinteressati vantano primigenie, collaborazioni sopravvalutate, amicizie gonfiate.
Stefano Pio certi capolavori li ha visti nascere. E ci scherza anche su: “Franco a casa veniva praticamente ogni giorno, e mio padre e lui si mettevano sul mio pianoforte a mettere a punto certe intuizioni che Franco aveva di notte” (allora la notte gli piaceva, a differenza degli ultimi anni in cui cantava “la notte non mi piace tanto”). “Io dovevo rimandare le uscite con la mia fidanzata perché non potevo certo uscire senza avere trascorso le mie ore al piano, ma per farlo dovevo attendere che lo strumento venisse liberato da quei due lì che praticamente ogni giorno me lo sequestravano”.
È questo il clima vissuto da Stefano Pio, spettatore – neppure tanto passivo (a volte veniva mandato lui nei programmi televisivi a sostituire un ancora poco noto Battiato) – del farsi di una collaborazione storica e di una grande amicizia (“Si volevano molto bene, ma questo non gli impediva di darsi sempre del lei e di discutere con forza su certe soluzioni musicali, e quasi sempre cedeva Franco, che a mio padre riconosceva una esperienza e una visione musicale assoluta”). Che è continuata fino agli ultimi giorni, perché i due, deposta la collaborazione per volontà di Giusto che, avanti negli anni, ormai vedeva Battiato (“Mio padre lo considerava come un figlio, per certi aspetti, almeno a livello di tempo trascorso, ha quasi preso il mio posto”) in grado di camminare da solo, comunque si sentivano ogni giorno, perché Battiato sentiva comunque il bisogno di un confronto con lui.
Basti pensare a una cosa, raccontata dallo stesso Battiato: Karl Heinz Stockausen, compositore contemporaneo allora molto in voga, si stupiva del fatto che lui non conoscesse la notazione musicale e una sera si mise a insegnargliela. L’opera di insegnamento della notazione fu proseguita proprio con la frequentazione di Giusto Pio. Il quale non va ricordato, come molti fanno, semplicemente come l’arrangiatore delle parti orchestrali delle canzoni di Battiato. I due infatti scrivevano insieme quelle canzoni, fino a produrne, firmandole congiuntamente, addirittura 128!
Il figlio Stefano con forza riflette su questi dati: “Perchè la coppia Battiato-Pio non viene ricordata con la stessa aderenza alla verità di come, tanto per fare un esempio, viene ricordata la coppia Mogol-Battisti?”.
Una cosa deve essere chiara, ci ricorda il figlio-allievo di Giusto, e che anche io, nel mio piccolissimo di conoscitore, anche musicalmente tecnico, del percorso artistico di Battiato , ribadisco con forza da tempo.
Il percorso artistico di Battiato ha preso una certa piega anche e soprattutto grazie a questa straordinaria collaborazione e comunanza artistica. Tra due persone che, peraltro, venivano da mondi molto diversi, apparentemente inconciliabili che procedevano per binari paralleli senza punti di incontro. L’uno dalla musica classica, l’altro da quella elettronica. Il loro incontro li ha portati su un territorio, quello pop, nuovo per loro e, a pensarci bene, nuovo per la stesa musica pop. Il duo Battiato-Pio non si è semplicemente spostato sulla musica pop ma l’ha rielaborata tanto da inventare un pop nuovo fino a meritare l’appellativo “alla Battiato”, che sarebbe più giusto e completo dire “alla Battiato-Pio”.
Il pop, del resto, che ha meno delle ritualità imposte del rock, è un genere contenitore dove tutto si può inserire, prestandosi ad essere rielaborato, stravolto, reinventato e inventato di sana pianta.
L’abbinamento Battiato-Pio ha fatto tutto questo. Prima di loro non c’erano brani come quelli che abbiamo sentito dalla loro penna e dai loro archi. Non c’erano prima e non ci sono stati dopo, nonostante innumerevoli tentativi di imitazione. Del resto, ho avuto modo più volte di scrivere che proseguire il discorso di Battiato lo si può fare solo tenendo conto di quello che lui pensava sull’approccio artistico: ognuno ha la sua strada e deve sforzarsi di cercarla, senza imitare e scimmiottare nessuno, senza cercare subito il successo, avendo presente la costante dell’evoluzione e del miglioramento. Le strade facili e scontate non piacevano a lui, e non devono quindi neppure attrarre chi veramente, e genuinamente, intenda mettersi sulla strada da lui tracciata.
Ecco perché certe rievocazioni e certi omaggi, che nulla aggiungono non solo all’arte di Battiato, ma neppure all’arte in generale, essendo stantie e profumando da subito di chiuso e di vecchio, non sono granché stimolanti, se non per un ricordo generico e così fine a sé stesso da rischiare persino di essere stucchevole.
Stefano prende le mosse da tutto questo e, complice un ritrovamento di una serie di spartiti manoscritti originali di suo padre, si mette a ricostruire, con scrupolo filologico d’altri tempi, l’opera musicale del duo Battiato-Pio. Scoprendo alcune diversità rispetto alle versioni poi incise. Percorrendo nuovi spunti e analizzando a fondo quelle che erano tutte le ipotesi sul campo prima di essere costretti a scartarne tutte meno una. Riaprendo i suoi “cancelli della memoria”, permette anche a noi di poter godere di questa ricostruzione filologica.
Che – e qui sta il punto decisivo del progetto – non è una celebrazione ferma, quasi funerea, ma assolutamente viva e pulsante. È qui che si inseriscono tutte le esperienze spirituali di Stefano Pio, che tanto ricordano anche quelle di Battiato e del padre che, non dimentichiamo, fu autore di brani religiosi e mistici, e anche di una Missa populi di grande intensità spirituale e pace armonica.
In “Hu o la nostalgia dell’Amato”, infatti, vi sono riferimenti costanti alla spiritualità sufi, indiana e tibetana e cristiana.
Stefano Pio e Franco Battiato, del resto, si sono collocati spiritualmente proprio in quella via di mezzo che consente di trarre da varie tradizioni linfa per la ricerca della Verità. Non si sono appiattiti né catalogati su un solo percorso, ben sapendo – e questo è un grande insegnamento – che la Verità non ha un solo linguaggio e una sola grammatica, ed è come un fiume con tanti affluenti, tutti ugualmente importanti e stimolanti.
Non a caso l’icona iniziale, nonché simbolo dello spettacolo, è stato proprio un quadro di Battiato che illustra un Cristo in abiti palestinesi e con le mani coperte. Questa figura, di grande impatto emotivo e di grande forza trascendente, e con significati, anche sociali, forti, sui quali sarebbe bene riflettere, è apparsa all’inizio dello spettacolo, dando subito una impronta decisa a quello che tutto il progetto vuole trasmettere.
La serata è introdotta da Rosario Di Bella, che canta, mai così opportuna, “Pace”, tratta dall’album Spirituality, scritto con Juri Camisasca. Di Bella è uno di quegli artisti che, per delicatezza e intensità dei brani, va scoperto, anzi riscoperto. Non è mainstream, e proprio per questo va ascoltato con attenzione. Lo spettacolo inizia con uno struggente suono del flauto nay che induce alla pace e alla disposizione all’ascolto. Migliore introduzione non poteva esserci per cedere il passo a uno dei principali capolavori di Battiato, quell’Oceano di silenzio con cui, nel disco Fisiognomica, confermava la sua svolta spirituale (che svolta non è, casomai un approfondimento ulteriore, perché in realtà tutta l’opera di Battiato è permeata di questo tema), frutto non casuale del suo ritorno nei profumi e nei colori della Sicilia, proprio nel paese di Milo, dove i suoi fan più sensibili ai temi spirituali si sono riuniti.
Ma l’Oceano di silenzio è solo il primo pezzo in scaletta. La quale, leggera come nuvola non minacciosa, porta i molto fortunati presenti, salutati da una non casuale eruzione dell’Etna, lungo un viaggio nella memoria, con radici ben salde nel presente, in continue suggestioni ed evocazioni. L’attenzione è assoluta, tanto che persino l’applaudire (che non è certo mancato) sembrava quasi un disturbo alla concentrazione e alla magia di quelle musiche. La scaletta è stata quasi tutta incentrata sulle opere più marcatamente spirituali, con qualche concessione all’eros di Sentimiento nuevo e Voglio vederti danzare. Un equilibrio riuscito tra varie istanze, senza tuttavia mai perdere di vista quella mistica, che è stato il filo conduttore dello spettacolo.
I momenti più alti sono stati l’esecuzione di L’ombra della luce, pura commozione, Prospettiva Nevski, struggente e potente allo stesso tempo, una Temporary road recuperata e rimessa in gran vita (anche nel testo, recuperato nella sua versione originale, con quei riferimenti alle multe prese per divieto di sosta tolti poi nella versione su disco), I treni di Tozeur, il cui incipit è forse la cosa più bella mai sentita nella musica leggera, Mal d’Africa, che non poteva mancare, tanto è intrisa di sicilianità, Luna indiana, finalmente restituita alla sua versione originale, misteriosa ed esoterica, Il re del mondo, vetta assoluta della collaborazione Battiato-Pio, con quell’aria sospesa fra speranza e timore, favorita dal passaggio continuo dalla tonalità maggiore a quella minore dello stesso accordo di Mi.
Una menzione speciale meritano i due cantanti, Enrico Masiero e Daniela Papale, i quali si sono avvicinati all’improba opera di non far rimpiangere l’originale con assoluto rispetto, senza alcuna spocchia autocelebrativa e con originalità. Non parlo solo delle loro indiscusse capacità tecniche, perché su quel lato sono bravissimi, ma della più rara capacità di emozionare.
Masiero, di estrazione lirica (è un tenore nonché eccellente pianista), all’inizio era emozionatissimo, e la sua emozione, perdonatemi il gioco di parole, è stata una delle cose più emozionanti della serata. Non da meno la Papale, la cui timbrica ricorda l’Alice degli anni 80/90, che ha saputo tradurre tutta questa emozione in vocalizzi pertinenti e mai sovrabbondanti. Le due voci si sono mescolate a meraviglia e non hanno mai, nemmeno per un secondo, fatto sentire l’assenza dell’originale più dell’inevitabile dovuto.
Cantare Battiato è difficilissimo non solo per gli aspetti tecnici, ma perché è inevitabile scontare questa distanza tra chi lo canta e lui. E allora accade che, per coprire questa distanza, chi lo interpreta si lancia in imprese improbabili, guizzi non pertinenti, ghirigori distraenti, esagerazioni interpretative che veramente fanno cadere le braccia e rimpiangere l’originale più del dovuto.
Masiero e Papale hanno avuto l’intelligente umiltà di accettare questo inevitabile scarto senza cadere nella tentazione di riempirlo. Questa impostazione ha permesso loro di godere appieno dell’emozione del tutto, e di farsi da essa trascinare ed elevare. E, soprattutto, di essere loro, e non copioni scimmiottatori qualsiasi di un inimitabile Battiato.
In questo mantenere una loro identità, posso dire – e sapete quanto io ami Battiato – che l’autore siciliano non è mancato più di quanto sia naturale mancasse.
Questo risultato è stato, insomma, straordinario, perché in tutte le celebrazioni cui ho assistito, sia da semplice spettatore che da narratore, a me Battiato è mancato tantissimo, direi oltremodo, tanto da creare in me un nervosismo, una tensione irrisolta, uno stato di disagio che mi ha allontanato e mi ha privato delle emozioni che andavo cercando.
Emozioni che invece ho finalmente recuperato assistendo, con commozione mai interrotta, ad “Hu, o la nostalgia dell’amato”. Che mi ha creato nostalgia, ma mi ha dato le chiavi per affrontarla ed elaborarla.
E credo sia la stessa cosa che ha provato il pubblico, un pubblico selezionatissimo, quello più puramente dedito e legato a Battiato. Non quello occasionale e “caciareccio”, non quello affascinato solo dalla moda del personaggio, e delle celebrazioni stantie, non quello effimero. Del resto, non si sale fino agli 800 mt di Milo se non si è motivati. In quello stesso giorno c’erano un po’ ovunque in tutta Italia, per non parlare della Sicilia, celebrazioni, alcune molto più pubblicizzate e molto più di richiamo, almeno di facciata.
Con tutto il rispetto e la simpatia che posso avere per queste celebrazioni, dove pure sono coinvolti collaboratori e amici di Battiato storici ed importanti (alcuni un po’ troppo autonominatisi tali), io posso però dire che è a Milo, è con Stefano Pio e la sua opera, che ho potuto, finalmente, riassaporare quello che da qualche anno non assaporavo più.
Stefano Pio ha fatto in modo che la nostalgia, conclamata fin dal titolo, non sfociasse in funebre tristezza o in malinconia irrimediabile per quello che c’è stato e che ora non c’è e non potrà esserci. Cosa che purtroppo mi scatenano le tante altre rievocazioni, a partire da quella di Verona, dove la forte emozione si è mischiata con un senso di estraneità e disappunto per certe presenze, per certe assenze, e per certe egocentriche posizioni, anche postume di chi cerca, attraverso Battiato, una visibilità che la sua sempre più scarsa produzione artistica ormai non gli regala più.
Pio, per la purezza della sua ricerca e delle sue intenzioni, per il fatto che è un gran musicista, nonostante il suo schermirsi, e anche per aver vissuto in presa diretta, a casa sua, sul suo pianoforte, nella sua stanza, la nascita del fenomeno Battiato, a differenza di tutti gli altri, ha fornito le chiavi per aprire questa nostalgia, andarci fino in fondo e scardinarla gentilmente (come gentile e deliziosa è la sua stessa persona, che ho avuto la fortuna di conoscere e vivere in bellissime chiacchierate pre e post concerto).
Inserita così, la sua opera ha persino del soprannaturale. Non uso questo termine né a caso né per altisonanza, che non mi appartiene e non appartiene affatto all’autore di questo spettacolo.
Evocare qualcosa di negativo e dare le chiavi per elaborarlo, farlo proprio e scioglierlo in sentimenti positivi non è cosa del tutto normale e forse neppure meramente terrena.
Del resto, non credo di essere l’unico testimone di come lo spirito dei grandi autori rievocati sia stato abbondantemente presente la sera del 18, a Milo. Tutti noi, musicisti compresi, me lo hanno espressamente detto, abbiamo percepito la presenza, direi soddisfatta e benevola, dell’oggetto di questa grande nostalgia. Chi ha frequentato l’opera di Battiato queste cose le sa bene e le capisce al volo. Tutti gli altri nemmeno ci provino a capire, non capirebbero, e mi, e ci, prenderebbero per folli.
Ora che il progetto è stato presentato in anteprima, non resta che continuare a farlo vivere e crescere portandolo in giro per l’Italia. Proprio per le caratteristiche che ho menzionato, compresa quella per una attenzione all’aspetto visivo, con video molto pertinenti e narrativamente coerenti con la musica e le parole, potrà essere ciò che veramente manca, nella grande valigia delle rievocazioni dell’opera di Battiato.
Pensate che si è arrivati – parlo dell’a tratti imbarazzante docufilm di Angelo Bozzolini andato in onda su Rai1 – a dare voce a gente che con Battiato c’entrava poco, e che ora è sempre lì in primissimo piano a sbracciarsi e dimenarsi, in assoluta incoerenza con il messaggio antiegocentrico dell’autore siciliano, senza neppure citare per un secondo Giusto Pio, coautore per 25 anni con lo stesso Battiato. Un errore imperdonabile per chi fa un docufilm, perché segno di mancata documentazione e di una scarsissima conoscenza della materia.
Ecco perché lo spettacolo di Stefano Pio non è stato solo un atto d’amore verso il padre e verso Battiato, ma è stato un atto di giustizia.
Ma – ed è quel che più conta per lo sviluppo futuro, inevitabile dato l’interesse che ha suscitato – si tratta dell’unico spettacolo, almeno di un certo livello, che ha un valore innovativo e rielaborativo, pur nel suo rigore filologico, e non semplicemente (e un po’ tristemente) celebrativo.
Non è una cerimonia funebre ma un atto di meditata e consapevole gioia.
E, dunque che prenda il volo come merita. Ben sapendo che “le aquile non volano a stormi”.

Docente Luiss, dirigente pubblico, musicista, cantautore, videonarratore. Insomma, raccontatore di cose ed emozioni, con parole, musica e immagini.