Una sedia su un palco. Una figura minuta, una donna piccola piccola, Vittoria, che racconta un dolore grande, immenso. E’ la storia di “La borto”, scritto e interpretato da Saverio La Ruina, premio UBU 2010 come miglior testo italiano, riproposto al Teatro Morelli di Cosenza per l’apertura della stagione 2014 del Progetto More. Vittoria è una donna calabrese, che parla, con il marcato accento di Castrovillari, una lingua che è il gergo del povero, del semplice, fatto di parole ed espressioni che rendono perfettamente la macerazione che lei custodisce nel cuore. Vittoria dice che ha sognato di trovarsi davanti a Gesù e a un “tribunale” composto dagli apostoli e dai santi più influenti. A loro racconta la sua vita. Data in sposa (o meglio, “vennuta”) a 13 anni e mezzo, a un uomo più vecchio di lei, brutto e ulteriormente imbruttito dalla poliomelite, a 28 anni aveva già 7 figli. Un’esistenza di serie Z, da schiava libera, senza la minima attenzione alle sue emozioni, al suo cuore. Una donna che, dopo tanti parti, in un contesto sociale degradato e assolutamente esente da protezioni (siamo negli anni ’70, la legge sull’aborto è ancora di là da venire), decide di sottoporsi all’intervento di una ‘fantasima’ per oscurare l’ennesima gravidanza. Una scelta terribile e brutale, che rappresenta la ribellione di Vittoria contro il sistema nel quale si trova ingabbiata e che, oppressivo, la condannerà alla ‘colpa’. Ma una scelta che la fa evadere, per una volta, dal regime antietico in cui è nata, e con la quale distrugge lo scopo del mondo che l’ha voluta un numero, una macchina, utile solo per il proprio utero, per la forza generatrice che è nascosta nelle sue gambe, e per soddisfare l’istinto belluino dei maschi.
Quanto trasporto e quanta emozione. I gesti, il volto e la voce di Saverio La Ruina, fanno di ‘La borto’ un colpo al cuore. Un bel pugno allo stomaco per lo spettatore, specie se di sesso maschile, che, davanti alla sua storia si trova quasi a vergognarsi del proprio genere, del perché la meraviglia della creazione di creature simili a Dio in realtà li renda, tante, troppe volte, incapaci di comprendere il miracolo dell’esistenza, del relazionarsi a una compagna di vita, dell’idea di famiglia come progetto e non come obbligo, del senso della procreazione come proiezione di un miracolo di creazione divina e non come fredda e asettica macchina riproduttiva, conseguenza casuale del proprio istinto animalesco.
Settantacinque minuti tutti d’un fiato, dove si sorride, certo, ma in modo amaro e disincantato, per illudersi, forse, che quelli narrati erano altri tempi, come se i femminicidi e le violenze non fossero ordinari nella cronaca dei nostri giorni. Saverio La Ruina è immenso nel disegnare una figura arrendevole e triste, ma ricca di dignità e coraggio. Ha ragione nel far dire a Vittoria che ‘in Paradiso peccati non se ne fanno’, che ‘là sotto’ la vita è un’altra cosa…’. E Gesù e i suoi apostoli, dopo l’iniziale arrabbiatura per il peccato mortale dell’aborto, non può che compatire e, a suo modo, perdonare la sua scelta. Da segnalare il commento sonoro di Gianfranco De Franco, che accompagnando La Ruina sul palco, di schiena, ha prodotto un tappeto sonoro che ha dato il giusto contributo alla storia, ricca di pathos, intensa e che lascia tanta amarezza e rabbia nello spettatore.
Idealista e visionario, ama l’arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia…