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Oggi a far innamorare coppie di aitanti giovani e arzilli nonni d’Italia ci pensa Maria De Filippi con troni e tronisti. Nella Napoli degli anni ’30 lo stesso compito spetta al cavaliere De Rosa “trova marito” elegante e ruffiano quanto basta. Ma a guastare i piani della famiglia che sogna di conquistare il titolo nobiliare grazie ad un innamoramento pilotato, ci pensa una lettera. La lettera di mammà. Il testamento che una madre lascia al figlio, il baroncino in divisa che si muove come un soldato di legno, è il canovaccio dell’intera commedia in scena al Teatro Politeama di Catanzaro. La rappresentazione teatrale si divide in due atti. Nel primo c’è l’innamoramento più tra una famiglia borghese e due nobili decaduti che tra Claretta, aspirante sposa, e Riccardo, giovane convinto che i bambini nascono nell’orto di casa. Nel secondo, a matrimonio già celebrato, c’è il dramma. Il baroncino, non assolvendo ai compiti del buon marito, compromette le nozze dello zio con Teresa, parente della sua giovane sposa, zitella ma con una dote ricca e molto ambita. Ma che sia una commedia “defilippiana” lo si capisce sin dalle prime scene. Soprattutto quando, accompagnato da un lungo applauso, arriva sul palco Luigi. Che di cognome fa De Filippo. Ebbene sì. La lettera di mammà è la commedia scritta da papà Peppino. Oggi diretta e interpretata dal figlio Luigi nei panni del barone Edoardo. Il cast, tutto napoletano, è un mix perfetto di talento e simpatia. C’è la dolcezza di Claretta (Claudia Balsamo), l’eleganza stile charleston di Luisa (Stefania Aluzzi), la verve artistica di Giuseppina (Fabiana Russo), la bravura di Ernesto (Riccardo Feola), il fascino della signora Carnale (Francesca Ciardiello), l’ironia di Dorina (Marilia Testa), la grande presenza scenica di Teresa (Stefania Ventura), l’eccezionale interpretazione del baroncino Riccardo (Vincenzo De Luca), l’esuberante exploit di Gaetano (Michele Sibilio) e la straordinaria recitazione del cavaliere De Rosa (Giorgio Pinto). Tutto perfettamente assemblato dall’alchimia che solo uno che di cognome fa De Filippo può creare. Luigi De Filippo è in grado di monopolizzare l’attenzione, con uno charme e una sagacia unici. Con lui sul palco le trovate umoristiche e istrioniche, dispensate abbondantemente per il pubblico, rendono lustro al grande autore. Che ama gli intrecci. Gli amori, i litigi, i giochi comici. Stavolta portati in scena attraverso il matrimonio dell’imbambolato Riccardo con l’ardente Claretta, figlia di un ricco commerciante, e la vena masochistica dello zio barone che, pur di impossessarsi anch’egli di una ricca dote, dichiara a sua volta di voler sposare la zia di Claretta. Ma la lettera di mammà suggerisce al giovane figlio di rispettare e venerare la donna, al punto da non sfiorarla neanche con un dito. Almeno questa è l’interpretazione dello sposo-baroncino. Minacciato dal padre di Claretta ed incalzato dal desiderio di non voler più patire la fame, lo zio barone escogita un piano. Farà in modo che l’imbranato soldatino assista al peccaminoso bacio tra la signora Carnale e il suo amante. Il bacio del peccato e un bicchierino di troppo aiuteranno lo sposo a scoprire le gioie dell’amore. Il barone può finalmente sposare Teresa. La storia finisce. Qualcuno direbbe “e tutti vissero felici e contenti”. Qualcuno, però. Luigi Defilippo fa molto di più. Fa un omaggio a Napoli. A quella che non c’è più. Ma che, almeno per una sera, rivive sul palco dei teatri italiani sotto i raggi luminosi di “’O Sole mio”.

 

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