Palco nudo, popolato da un trespolo su cui siede un corpo nudo di donna. E’ l’incipit de “La merda”, rappresentazione di Cristian Ceresoli andata in scena al Teatro dell’Acquario di Cosenza. Il corpo è quello di Silvia Gallerano, unica inarrivabile protagonista di un monologo che, in poco più di un’ora, suddiviso nei tre temi “Le cosce”, “Il cazzo” e “La fama”, rovescia sullo spettatore un diluvio di parole in libertà. Un soliloquio a ruota libera, nel quale la giovane protagonista, con toni che ondeggiano dall’ilarità al dramma, ci rende partecipi della propria esistenza, anonima e scontata nel proprio grigiore di disadattata metropolitana, cresciuta all’ombra di un padre fascista che l’ha abituata al rigore e alla disciplina, ma non l’ha mai del tutto svezzata, e che l’ha resa orfana a 13 anni buttandosi sotto la metropolitana. Una ragazza brutta nella propria fisicità, ossessionata dal suo essere bassa e grassa, in un mondo nel quale l’immagine sembra essere davvero tutto, e dove il sesso è vissuto come esigenza e come manifestazione cui superiorità, e i rapporti sono uno scambio sterile e vuoto. Un mondo che le è stato regalato da chi l’ha preceduta, prima le camice rosse garibaldine, poi i cuori impavidi della resistenza partigiana. Un mondo che è stato sporcato nella propria purezza e integrità da quel lordume mediatico partorito dal genocidio culturale della massificazione consumistica, che fa viaggiare al ritmo della pubblicità e crea mostri di solitudine e infelicità. “La merda” è allora ciò in cui è sprofondata l’Italia, quello ‘stivale dei maiali’ cantato da Battiato che affonda nel fango degli scandali e delle ipocrisie, che attraversa i palazzi del potere, dove, gattopardianamente, si lavora avidamente perché tutto si conservi intatto e immutabile. La Gallerano è bravissima nell’affrontare con coraggio e determinazione una prova attoriale complessa e tragica al tempo stesso, dove i tempi della rappresentazione sono demandati alla resa scenografica di un palco vuoto da riempire con la nudità di un corpo normale, dove la normalità non suscita altro che la pietà.
E l’Italia, che emerge nelle sue contraddizioni colorate dalla protagonista con l’accenno all’inno di Mameli, associato ormai solo alle partite di calcio, ne esce ancora di più con le ossa rotte, quelle di una vecchia signora assuefatta dal dolce veleno del piattume quotidiano. “La merda”, scioccante protagonista nei teatri di mezza Europa, meritoria vincitrice tra gli altri del prestigioso Fringe First Award for Writing Excellence, è senz’altro figlia dell’invettiva pasoliniana. Ma c’è un ‘ma’. Quell’invettiva, declinata in varie salse e declamata attraverso le innumerevoli etichette che le sono state appropriate, riecheggia da quarant’anni. Ormai, sembra essere divenuta quasi una parte del tutto. Una voce fuori campo che, tuttavia, corre purtroppo il rischio di apparire normalizzata alla realtà delle cose, talmente pendant con il resto della scena da poter sembrare – azzardiamo, per carità – irriconoscibile persino al suo ispiratore, che forse oggi parlerebbe altri linguaggi, denuncerebbe altre irriverenti porcherie, e, per scandalizzare, giocherebbe con altri strumenti. Già: cosa penserebbe Pier Paolo Pasolini de “La merda” di Cristian Ceresoli?
LA MERDA – Clip video
Idealista e visionario, ama l’arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia…