“Io sono un filo d’erba, un filo d’erba che trema. E la mia Patria è dove l’erba trema. Un alito può trapiantare il mio seme lontano“. Sono i versi di “La mia patria“, poesia di Rocco Scotellaro, scrittore e politico lucano, che Antonello Faretta, regista potentino, ha scelto di pubblicare sul blog http://montedorofilm.tumblr.com per introdurre il suo primo lungometraggio, Montedoro. Il film parla di un ritorno a casa, quello di una ricca donna americana di mezza età, che improvvisamente scopre le sue vere origini, e decide di fare ritorno nella terra che l’ha vista nascere, a Montedoro, nel cuore della Basilicata, con la speranza di poter riabbracciare la madre naturale che non ha mai conosciuto. Una storia intensa e commovente, che sa di emigrazione, ma anche di ritorno e abbandono alle proprie radici, e che attraverso l’artificio cinematografico della fantasia diventa gioco della memoria grazie al quale rivivono suggestioni mai sopite, esaltando una comunità apparentemente fragile eppure granitica nel ricordo e nella condivisione delle emozioni. Il cast del film comprende Pia Marie Mann, Joe Capalbo, Caterina Pontrandolfo, Luciana Paolicelli, Domenico Brancale, Anna Di Dio, Mario Duca, Aurelio Donato Giordano, Joan Maxim e gli abitanti di Craco, poco più di 700 anime in provincia di Matera.
Abbiamo intervistato Faretta proprio all’indomani del fine ciak del film, e alla vigilia della partenza per gli Stati Uniti, dove la pellicola è stata selezionata e sarà in concorso all’Atlanta Film Festival.
Montedoro è anzitutto un viaggio alla ricerca delle proprie radici: una tematica che diversi cineasti italiani hanno già affrontato in numerose pellicole. Come mai l’ha scelta e in cosa ritiene di differenziarsi dai suoi colleghi?
Non ho scelto io il tema del film. È stato lui a scegliermi in un momento molto particolare che stavo vivendo, di grande fragilità… come cittadino italiano innanzitutto. Ho conosciuto la protagonista di Montedoro, Pia Marie Mann, circa sette anni fa a Craco, la “città fantasma” vicino Matera in Basilicata. Mi sono imbattuto nella sua storia incredibile e in quella di questo luogo magico abbandonato nel 1963 in seguito ad una grande frana. Pia, nata a Craco 63 anni fa, venne data in adozione all’età di quattro anni ad una famiglia di New York. L’ho incontrata proprio mentre ritrovava la sua madre biologica. Fu un momento molto emozionante. Da quel momento ho provato a ricucire assieme la storia metaforica di tre frane: quella di Pia (per lunghi anni divisa tra una vita e un’altra, New York e Craco), la mia (annichilito come molti in un’Italia alla deriva) e quella di Craco, una città fantasma di spettri e macerie che scivola via inesorabilmente.
Le nuove generazioni, attraverso diverse forme d’arte, dal cinema alla letteratura, alla musica, sembrano apprezzare la riscoperta del proprio passato e delle proprie origini. Come spiega questo fatto?
Viviamo in un’epoca di svuotamento dell’identità individuale e collettiva. È un bene che molti si siano messi a rammendare le pezze e incollare i cocci. C’è un grande bisogno evidentemente di ridefinirisi, di inquadrare meglio le cose, se stessi, i luoghi e le comunità che viviamo. È un atto di coraggio non indifferente in un tempo come il nostro di narcosi e spossatezza. Forse è proprio questo il punto: il passato è l’unica materia che che ci appartiene veramente rispetto ad un presente indecifrabile – e per certi versi che fa orrore – che non fa intravedere alcun futuro.
Matera ha recentemente conquistato un riconoscimento importante: mi riferisco al titolo di “Capitale della Cultura 2019”. In che modo la cultura e le arti, e nello specifico il cinema, possono aiutare il Sud a sviluppare le proprie potenzialità?
È un grande primo traguardo raggiunto da Matera e dal comitato organizzativo di Matera2019. È un grande riconoscimento che può trasformarsi in uno straordinario potenziale di sviluppo per la Basilicata intera, e credo anche per l’area del Mediterraneo. La cultura, dico l’ovvio, è alla base dello sviluppo. Se non c’è cultura non c’è sviluppo. Il cinema può fare tanto, molto soprattutto se strettamente connesso ai territori in cui si innesta produttivamente. In questo, una funzione importante è svolta dalle Film Commission a cui spetta il compito di connettere le energie cinematografiche dei territori, creare possibilità di sviluppo locale. Fondamentale è anche il lavoro di quei cineasti che lavorano “sui territori” riprendendo tradizioni dei luoghi perse, coinvolgendo le maestranze locali e rendendo le storie locali universali. Un esempio su tutti è quello di Michelangelo Frammartino con il suo Alberi, la cineinstallazione girata a Satriano di Lucania, che riprende la figura centrale del carnevale del posto, quella del Rumit. La sua installazione recupera una delle più antiche tradizioni lucane che erano andate ormai smarrite, le fa rivivere con la lingua del cinema e le porta in giro per il mondo restituendo al territorio stesso un importante landmark su cui ricostruire e rilanciare la tradizione stessa. Cosa che è andata proprio così a Satriano, dove il carnevale è rinato grazie all’impulso vitale di Michelangelo.
In che modo possono farlo invece la politica e le istituzioni in genere?
Possono farlo in molti modi. Innanzitutto, conoscendo meglio i propri territori e i propri talenti, e fare in modo che restino in loco. La mia regione è ancora una regione di grande emigrazione, come lo è diventata l’Italia intera. Bisogna premiare merito e talento, e creare le condizioni per incubare le idee migliori e realizzarle. Poi credo sia fondamentale connettere e mettere in sinergia persone, istituzioni e imprese. Oggi purtroppo, per come stanno messe le cose, è più semplice che un talento o un’idea di valore fuggano all’estero, piuttosto che restare in Italia a sbattere contro burocrazia e difficoltà innumerevoli. Questo non va assolutamente bene.
Il suo percorso artistico e professionale parte proprio dal Sud. Cosa l’ha aiutata di più a non mollare e ad andare avanti nonostante quelle che immaginiamo siano state le numerose difficoltà incontrate?
Spesso sono proprio le difficoltà a darci la forza. Gli ostacoli servono a crescere e ad accrescerci, umanamente, spiritualmente. “Per risplendere devi bruciare” scrive in una sua poesia John Giorno: è un po’ così. Chi riesce a fare le cose oggi in Italia è una sorta di martire animato da una grande Fede, non solo religiosa ma soprattutto spirituale. Se penso che ci ho messo quasi sette anni a realizzare Montedoro, devo iniziare a credere anche ai miracoli, al miracolo dell’uomo innanzitutto. Ma il sud per me, la mia Basilicata, sono un laboratorio, un cantiere poetico se vogliamo… Bisogna saper cogliere la vita ad ogni latitudine, dopotutto.
La sua è un’opera lontanissima dall’industria cinematografica. Come il cinema d’autore può combattere e vincere la lotta che sembra impari contro le mega-produzioni commerciali?
I miei lavori non si pongono sul piano del combattimento, sono opere che faccio per me innanzitutto, per capire meglio me stesso, la vita e il mondo in cui vivo. E do sempre al cinema un valore alto, quello del dono, della condivisione. Ecco, mi piace questo dell’arte, il dono e fare cinema per me significa questo: condividere un percorso, una emozione, una riflessione con gli altri. Il cosiddetto cinema d’autore vince in partenza sul cinema commerciale: il primo è un cinema che resta, fa riflettere, crescere… il secondo molto spesso dura il tempo di una stagione.
Quali sono le soddisfazioni più inattese che sta ottenendo da “Montedoro”?
La soddisfazione più grande è che il film sia finalmente finito! L’altra soddisfazione è che avrà anteprima negli Stati Uniti. Sarà in concorso a marzo all’Atlanta Film Festival. Abbiamo realizzato il film in Basilicata, in un meraviglioso paese abbandonato e adesso lo portiamo oltreoceano. È un grandissimo risultato per tutti noi. Bisogna puntare sempre alla internazionalizzazione, significa lavorare su di una maggiore competitività del tuo lavoro e una maggiore neutralità di giudizio fondato sul merito e sull’opera senza incappare nei vizi di un certo cinema italiano dove i film alle volte sembrano tutti uguali, tutti con gli stessi attori, gli stessi autori e gli stessi produttori. L’unica possibilità che abbiamo noi “giovani autori” italiani è lavorare lontano da questo presepe, come direbbe Carmelo Bene. In Italia bisogna innovare profondamente, cambiare mentalità e metodi.
Cosa direbbe a un giovane che vede nel cinema il proprio futuro professionale?
Di non vedere il cinema come una professione innanzitutto, ma come un percorso di amore, di espressione e di gioco. Un percorso di fede e di fiducia. Mi viene in mente a riguardo una frase di Herzog che spiega bene il percorso: auguro a tutti di sperimentare prima o poi nella vita di portare la propria barca su di una montagna… auguro a tutti di continuare a credere nei propri sogni. Ripeterei ad un giovane questa frase e gli direi di lavorare sodo affinché i sogni diventino realtà.
NoteVerticali.it è un magazine che si occupa di cinema, ma anche di letteratura e musica. Potrebbe associare a “Montedoro” un libro e un disco?
Quando scrivevo e montavo Montedoro, due libri e una figura umana e letteraria mi sono stati di compagnia e conforto: i libri sono L’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, e Alla Ricerca del Tempo Perduto di Marcel Proust, mentre la figura, attraversando tutta la sua opera, è quella di Rocco Scotellaro. Per quanto riguarda la musica, invece, penso alla romanza Una Furtiva Lagrima di Gaetano Donizetti, cantata da Enrico Caruso, aria che ho utilizzato nel film.
Cosa ha in programma per il futuro? Ha già in mente un prossimo film?
Ci sono alcune idee in incubazione, vedremo cosa resta nel setaccio.
(Foto di Giovanni Lancellotti)
Idealista e visionario, forse un pazzo, forse un poeta, ama l’arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia…