NoteVerticali.it_Pasolini_Abel-Ferrara_Willem-Dafoe_2Scandalizzare è un diritto, essere scandalizzati un piacere, e chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista”. Pier Paolo Pasolini pronuncia questa frase nel corso di un’intervista al giornalista di Antenne 2 Philippe Bouvar. Il film di Abel Ferrara si apre con queste immagini. Siamo a Parigi, è il 31 ottobre 1975. Il regista, di ritorno da Stoccolma, dove era occupato della traduzione del libro “Le ceneri di Gramsci”, si ferma velocemente in Francia per presentare il suo ultimo film, “Salò o Le 120 giornate di Sodoma”, un viaggio metaforico nell’orrido della violenza, dove il sesso viene dipinto come strumento del potere ignobile, quel potere che viola ogni libertà e che riduce ogni espressione umana alla sottomissione, etica e corporale insieme. “Il sesso è politica”, afferma nella stessa intervista un Pasolini quasi compiaciuto, che poi – ma la pellicola non lo mostrerà – proseguirà dissertando di cannibalismo reale e metaforico, e sul suo desiderio di divorare (!) insegnanti della scuola dell’obbligo e dirigenti della televisione italiana. Bastano già pochi minuti per comprendere come “Pasolini”, che ci mostra Willem Dafoe nei panni del poeta di origine friulana, non sia un film come tutti gli altri.

La pellicola, presentata al Festival del Cinema di Venezia, una co-produzione Capricci, Urania Pictures, Tarantula, Dublin Films con Arte France Cinema e distribuita da Europictures, ci mostra quindi la giornata del 1° novembre, l’ultima di Pasolini, che per lui è una giornata di incontri e di confronti. Il regista è rientrato nella sua casa romana, dove abita con la madre Susanna e la cugina Graziella. Qui, dopo il caffè, si immerge nella lettura del “Corriere della Sera” e poi pranza con la mamma, la cugina e il cugino Nico Landini (Valerio Mastandrea). Nel corso del pranzo si unisce ai commensali Laura Betti (Maria de Medeiros), che è appena rientrata dalla Jugoslavia dopo aver terminato il doppiaggio di Linda Blair ne “L’esorcista” e di Hélène Surgère in “Salò”. Un clima sereno e allegro, nel quale le ‘folli’ esternazioni della Betti riescono a trovare il giusto equilibrio con il tono pacato degli altri presenti. La giornata prosegue con un’intervista concessa a Furio Colombo, che sarà poi pubblicata postuma su “La Stampa” nell’edizione dell’8 novembre. Un dialogo serrato, al quale Pasolini stesso dà un titolo, “Siamo tutti in pericolo” nel quale l’intellettuale affronta cripticamente i temi che gli sono a cuore in quel periodo, disegnando una parabola di pericolo che deriva dal potere, quel sistema di educazione che – dice – “divide gli uomini in soggiogati e soggiogatori“. Un sistema nel quale sta per prevalere – come afferma in modo terribilmente premonitore – “la voglia di uccidere”, il seme di una violenza che prolifera e del quale lo stesso scrittore resterà vittima.

NoteVerticali.it_Pasolini_Abel-Ferrara_Willem-Dafoe_1Una realtà crudele e agghiacciante, che cresce e si rafforza sotto lo sguardo inerme dell’uomo comune, addormentato e distratto dai mezzi del consumismo, la televisione in primis, che ammorba e distorce. Accanto a questa cruda visione delle cose, ci sono le visioni che Pasolini ha in mente, quelle delle opere a cui sta lavorando. Congedato Colombo, scrive a Eduardo De Filippo, illustrandogli il progetto di storia che ha in mente, e per la quale lo vorrebbe come interprete: è il racconto di un viaggio, quello che due personaggi strampalati, Epifanio (Eduardo, che nel film ha il volto di Ninetto Davoli) e il suo servitore Nunzio (Ninetto Davoli, interpretato da Riccardo Scamarcio), compiono seguendo la Stella Cometa per andare a visitare il Messia appena nato. Un viaggio – “guidato da una escatologia ideologica”, come scrive lo stesso Pasolini – che è metafora della ricerca dell’identità umana, in un uomo che poi perde la propria natura originaria per trovare nuovi significati in un’esistenza senza valori.

NoteVerticali.it_Pasolini_Abel-Ferrara_Ninetto Davoli_Scamarcio_3Il film, dopo aver mostrato l’incontro con Ninetto Davoli, in compagnia della moglie e del figlio, scivola così verso un finale purtroppo noto, che inizia quando il regista si imbatte, nei pressi della Stazione Termini, con Pino Pelosi. Ferrara non aggiunge e non toglie nulla alla cronaca dei fatti, preferendo mostrarli nella sua visione più elementare: Pasolini si apparta a Ostia con Pelosi, quindi i due vengono intercettati da un branco di balordi che picchia e uccide lo scrittore. La tragicità delle scene, terribilmente orrenda e banale nella violenza di quello che può sembrare un incidente, stride con il mondo così pieno e complesso di Pasolini. E nella mente dello spettatore non possono non riecheggiare le parole di Moravia: abbiamo perso un poeta, e poeti ne nascono tre o quattro in un secolo, il poeta dovrebbe esser sacro.

NoteVerticali.it_Pasolini_Abel-Ferrara_Willem-Dafoe_4Questo è “Pasolini”, un film scomodo, brutale e complesso, documento visivo apparentemente criptico e freddo per raccontare un personaggio non facilmente inquadrabile in un contesto lineare e oggettivo. Pasolini faceva della complessità un proprio status, e Ferrara lo sa bene. Infatti non lo eleva al rango di martire, come un percorso cinematografico senz’altro più facile avrebbe potuto suggerire, ma ne evidenzia le contraddizioni e le debolezze, correndo quasi il rischio di rappresentarlo come una persona depravata malata di sesso, e “uno che se l’è andata a cercare” (purtroppo si è detto anche questo all’indomani di quella notte all’idroscalo di Ostia). Ma in questo il regista newyorchese, che nella stesura della sceneggiatura si accompagna a Maurizio Braucci, compie una scelta apprezzabile e coraggiosa, ricostruendo in modo minuzioso e cronachistico, grazie ai documenti e alle testimonianze, le ultime ore di vita di Pasolini, ma non solo. “Il risultato finale” – scrive Braucci nelle sue note di sceneggiatura – “è stato un flusso narrativo simile al modo con cui in pittura si utilizza la tecnica delle velature, sovrapponendo strati di colori con tonalità diverse e giocando con le trasparenze per avere un risultato più intenso e allo stesso tempo più brillante”. Ciò per l’aggiunta al reale (le vicende delle ultime ore di vita del regista, comprese le sue interviste) dell’immaginario, quello delle opere di fantasia alle quali il regista stava lavorando. La maschera di Willem Dafoe, che si muove con una tensione da attore consumato quale è per dar vita a un personaggio così alto, e il montaggio di Fabio Nunziata, che compie un’azione di immenso rispetto per questa scelta di regia, confezionano un film unico e discutibile, nel senso di un film che crea discussione, confronto e voglia di verità. Quella verità, che, prendendo in prestito le parole di Iago/Totò in “Che cosa sono le nuvole?”, “non bisogna nominare, perché appena la nomini, non c’è più”…

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