“I fall to my knees
and look to the sky
Who will save rock and roll?…”
E già nel non più vicino 2001 se lo chiedevano nel loro disco D.F.F.D i Dictators. E tutt’oggi continuiamo a chiedercelo un po’ tutti noi nostalgici del tempo che fu. Chi salverà il rock’n’roll? Domanda di difficile, anzi difficilissima risposta. Soprattutto se si considera il fatto che molti lo hanno dichiarato già kaput sin dalla scomparsa del caro Re, Elvis Presley (1977). Esagerati forse, ma anche loro, come noi, pensierosi catastrofisti delle sorti di questo amato genere musicale. Che genere musicale si sa non è. Chiamatelo piuttosto modus vivendi. Perchè il rock’n’roll trascende la musica. Va oltre e diventa missione. E i Dictators ne sanno qualcosa di tutto questo.
Band “americanza” e dico “americanza” per un motivo specifico. I Dictators, classe 1973, di americano hanno tutto. La città di origine in primis: New York City. La passione per le macchine grosse e cafone ( vedi brano I Love Cars and Girls), e come le vere band americane “pompano” gli amplificatori come solo loro sanno fare, con le loro chitarrone hard, tirando fuori quello che nientemeno è se non un proto punk per palati cattivi ma tremendamente raffinati. E come molti americani, e questo, vista anche l’età, non possiamo non notarlo, hanno una certa panzetta. Di quelle tonde, piene di hamburger e Coca Cola. Come quelle che ti servono da Manitoba’s. Lo storico locale dell’East Village aperto proprio dal cantante dei Dictators, all’anagrafe Richard Blum, ma noto ai più con lo pseudonimo di Richard “Handsome Dick” Manitoba. E a loro, la panza, gli sta benissimo. Perché nonostante i (tanti) anni passati, questi rocker se la girano ancora in lungo e in largo tra tour, reunion, fondazioni di band metal (il chitarrista Ross “The Boss” Friedman e anche un membro fondatore dei Manowar) e portano avanti il loro sound 70’s in maniera impeccabile, per non dire quasi commovente. I Dictators sono una band “americanza” perché sono ciccioni in tutto. Nei suoni, nei testi, nell’attitudine, nella voglia di fare casino.
8 album pubblicati dal ’73 in poi e eletti dal critico John Dougan come ”one of the finest and most influential proto-punk bands that walked the earth” , i Dictators sono fondamentalmente l’anello evolutivo e di congiunzione tra il proto punk di marca Stooges/Mc5 e il punk delle origini. Ed io, che me li sono visti lo scorso sabato all’Edonè di Bergamo, posso pormi ancora la stessa domanda:”Who will save rock’n’roll?” Perché ahimè in giro di band che ancora approccino al palco e alla vita in questa maniera ne sono rimaste davvero poche. Troppi i fighetti, i poser, i rocker da H&M. E troppo bistrattato il termine “rock”, ormai diventato semplice etichetta per ogni tipo di musica fatta con una chitarra. Ed io mi rammarico di vedere come il rock’n’roll ormai sia solo un ricordo o al massimo un’effimera realtà da “band superstite”. Ma allo stesso tempo gioisco quando vedo un gruppo come i Dictators che il rock’n’roll, alla fine, me lo salvano per oltre un ora di concerto. Facendomi sorridere ed esaltare. Cosa che accade raramente negli ultimi tempi. Perché la musica, soprattutto qui in Italia, è un posto adatto più alle immagini che ai contenuti. Per intenderci è come pensare che Ligabue sia un rocker o che basti mettersi una giacca di pelle per diventare tale. Bene, nel nostro paese quello che spacciano per rock è questo. Un’immagine, uno stereotipo visivo e nient’altro. Sarà che il rock è nato a casa dei Dictators, sarà che in Italia, si sa, tutto arriva dopo, ma quando, mi chiedo, anche noi riusciremo a raggiungere un livello non dico artistico, quello forse c’è già, ma di cultura rispettabile e in linea con il resto del mondo. E sì che non siamo più negli anni ’60, quando dominavano riviste come Giovani e Ciao Amici e dove c’era un clima desertico e impermeabile a tutto quello che (musicalmente) gravitava al di fuori dei nostri confini. Ma da noi il tempo pare essersi fermato. E così come per tanti aspetti della nostra vita anche il rock’n’roll sembra essere sempre più distante, lontano, irraggiungibile. Sarà che forse nessuno ne ha più realmente bisogno, sarà che la nostalgia è (perdonatemi) canaglia, sarà che il rock è ormai veramente una semplice etichetta, ma i Dictators, senza troppe menate, mi hanno regalato di nuovo l’idea, il sentimento di quello che è e dev’essere il rock’n’roll: musica, divertimento, e soprattutto attitudine. E me lo hanno sparato in faccia per un’ora terminando poi la serata tra di noi, a fare autografi col pubblico.
Gente che sta in giro da 50 anni e si dedica ancora totalmente al pubblico. Un pubblico fedele, credente, com’è credente chi ha dedicato la propria vita a questo demone. E quindi, fratelli miei, lasciamo pure ai grandi eroi dei talent show, ai grandi artisti rock che di rock non hanno nemmeno il nome, agli operatori della superstite industria discografica che spesso concentrano le loro forze su progetti di uno spessore artistico ridicolo e annichilente, le sorti delle tante, validissime, band nostrane. E così come c’è la fuga di cervelli c’è e ci sarà anche quella dei (furbi) musicisti made in Italy.
Ma quindi, alla fine…
WHO WILL SAVE ROCK’N’ROLL?
“Every protest singer
every guitar slinger
every punk rock sinner sells his soul
My generation is not the salvation
so who will save rock and roll…”
THE DICTATORS – Finale concerto Bergamo 6 giugno 2015