Come ogni anno, delle scelte ci conducono a una selezione delle migliori uscite dell’annata appena finita, foriera di proposte nuove e interessanti, di qualche elettrizzante novità e di alcuni nostalgici ritorni. La selezione è variegata, con almeno quattro, cinque picchi di assoluto livello e una buona caratura complessiva, qualche delusione lasciata fuori (per il sottoscritto Bon Iver, sul quale riponevo alta fiducia), oltre a delle conferme di grandi artisti del passato che in questo 2016 funesto ci hanno lasciato aprendo le porte, allo stesso tempo, a una nuova generazione di promettenti autori con più di un occhio al passato.
– GENNAIO –
Disco del Mese: SAVAGES Adore Life
Già nel primo album ci avevano piacevolmente stupito con i loro riff grezzi e dirompenti, ma è con questo secondo lavoro che ci convincono davvero, soprattutto per l’energia messa in campo: incedere pulsante di basso e batteria, melodie sbandieranti incertezze sinusoidali e accattivanti soluzioni disarmoniche. Jehnny Beth & Co. sfoderano una grinta invidiabile, tanto da dare una dimensione live all’intero disco (ed è dal vivo infatti che danno il meglio). L’ambiente dal vivo, il palco, il pubblico che letteralmente esplode, sono tutti dettagli che ben si confanno alla loro modalità di veicolazione dei messaggi.
Violini a fare da contrappunto a tessiture sonore che sono anche imprinting visuali, a cavallo con quel dream-pop e quel glam-rock che li ha resi famosi da “Dog Man Star” in poi. Si ha la sensazione quasi di un concept dentro le fascinosità del dreaming, qualche saliscendi emotivo lungo il percorso non rende il tutto molto fluido, ma a salvare il disco, rendendolo almeno il secondo migliore della carriera della band britannica, sono sicuramente le elaborate melodie.
Quel cipiglio innovatore, quell’aggraziata volontà sperimentale, quel piegarsi alle mode riciclandole in qualcosa di nuovo. Questo disco, l’ultimo della storia del Duca Bianco che ha anticipato di un soffio la sua dipartita, è un insieme di tutte queste cose, il coacervo di elementi eterogenei, il pulsante spettroscopio delle forme musicali/narrative. Meno vibrante rispetto al precedente “The Next Day”, più oscuro e vicino all’ultimo Scott Walker, a volte spiazzante nelle sue dissonanze, a volte ridondante, sempre terribilmente affascinante.
LAZARUS – David Bowie
TINDERSTICKS The Waiting Room
Teatralmente raffinato, notturno, dolente, carismatico come la voce suadente del leader Stuart Staples. Ogni brano a formare un circuito chiuso con le atmosfere da night-club o da jazz-club metropolitani, fumosi e misteriosi, fino all’idea partecipata con le immagini. Storie nelle storie a generar volume negli ascolti, passaggi obbligati nell’oscurità, sintagmi alternativi nel pop barocco solito alla band. Certo, la forza non è quella degli anni ’90, ma la classe e la sofisticatezza sono rimaste intatte nel tempo. Tanto di cappello.
JACOB GOLDEN The Invisible Record
Il folk intimista e trasognato di Jacob Golden raggiunge qui la sua maturità compositiva. Gli arrangiamenti sono più curati rispetto ai misconosciuti album degli anni passati e le melodie catturano, almeno in alcuni casi, al primo istante (nota Horse, Wild Faye, Life and Death Can’t Change That). In pochi si ricorderanno di “The Revenge Songs”, esordio vibratile, quanto di più lontano dalla ruffianeria della musica pensata apposta per le radio, ma sarebbe ora che questo cantautore, ammiratore dei Beatles e dei Simon & Garfunkel, venisse maggiormente ascoltato, apprezzato.
FEBBRAIO
Probabilmente il secondo miglior esordio dell’anno, il post-punk elettrizzante, lo shoegaze pungente di Pat Haynes e soci, col suo gloglottante cantato, è una piccola bomba a orologeria. Esaltante l’afflato ritmico, possente il tonante apparato melodico. A risentirne un poco, data la magniloquenza delle componenti che serpeggia a fine ascolto, sono gli arrangiamenti poco tirati a lucido, proprio per cercare di esaltare la forza dei singoli attraverso l’energia dell’insieme. Un peccato di poco conto se si considera che questo è soltanto il primo LP.
Ipnotiche sequenze ritmiche e melodiche, una sensualità dirompente e interiorizzata quella della band svedese, capace di rendere il free-jazz un contenitore di forme architettoniche e cinematiche ipnagogiche. Il riferirsi a una figura femminile, costante di tutti e quattro i componimenti, innerva l’ossessione nella ricerca, che le volute sonore sottolineano fino al climax finale con acume, freschezza, originalità, in particolare nella magnifica title-track. Sembrava essere stato scritto e fatto tutto in ambito jazz ma i Fire, al secondo album, sono pronti ormai a dimostrarci il contrario.
MARZO
Un titolo che sta ad evidenziare la natura ciclica delle cose. Tutto torna volgendo all’indietro. Perché quello che fa LaMontagne, pur nella brancolante sensazione di un levigato esercizio di stile, piuttosto dilatato, è d’innalzare il suono a un livello cosmico (su tutte l’oblunga e possente While It Still Beats che penetra meglio il concetto di fondo di The Changing Man), con più di un occhio di riguardo ai Pink Floyd (palese in A Murmuration of Starlings) e agli Who di Quadrophenia. L’imprinting del cantautore del Massachusetts viene un poco affievolito ma non snaturato e in alcuni passaggi, amabilmente notturni e a intermittenza come sfocati, dimostra di poter vincere qualsiasi scommessa, ribattendo in chiusura dalle parti del Ray che conoscevamo e che abbiamo imparato ad amare con la sua inconfondibile e particolarissima voce.
ERIC BACHMANN Eric Bachmann
Una scelta che meditava da tempo il maturo Bachmann, il songwriting self-titled. Predominanza di ballate al pianoforte che non disdegnano solari aperture con gli archi, venature soul e country, con la malinconia a fare da sfondo a tematiche improntate sul sociale, evitando al contempo che l’insieme delle componenti scada nel semplicismo del lo-fi. Un album adulto, che trova in alcuni brani in particolare (Belong To You, Dreaming, Separation Fright, Carolina) l’impronta di un cantautorato magistralmente raffinato.
La mestizia creativa di uno psycho-folk infilato nel bel mezzo di chitarre leggere e synth pullulanti. Una delizia fiabesca elettroacustica questo esordio, sfumato nei tratti della suadente voce di Jon Brooks particolarmente evidente in From Leaving in Meaning, in più passi fantasmagorico con elementi kraut e progressive mobili sullo sfondo di un affresco sonoro vintage di vibratile creatività. Ma la cosa che sorprende di più di questo album è la perizia e la pulizia insita nei particolari di registrazione del suono, tanto da renderlo quasi un oggetto straniante rispetto al marea-magnum delle produzioni attuali.
Una spinta etno venata di acidità punk su un impianto pop d’autore emerge dall’esordio solista del toscano Francesco Motta, ex compositore di colonne sonore e voce dei Criminal Jokers. Frasi e ritornelli lampanti (specie nell’apertura Del tempo che passa la felicità), una lieve protesta al bivio con le realtà di una Roma colta nell’attualità, il tentativo d’imbracciare la chitarra suonando con accordature insolite, che seppur nella ripetitività a lungo andare delle trame melodiche, sa convincere più di altri, aspettando la maturità e i frutti che con essa può portare. Bisogna saperli assaporare, nonostante i tratti che Motta coglie, son di una gioventù prevalentemente agra, incagliata nel divertimento senza un domani.
– APRILE –
Quel “four” di zeppeliana memoria, quell’impronta classic-rock con diversi momenti alt-rock e passaggi folk ben resi dall’incontrarsi della voce maschile con quella femminile, amplessi strumentali con riff andanti verso l’hard-rock. Sono i canadesi Black Mountain, giunti per l’appunto al loro quarto album. Echi di elettronica eterea, space-ambient, a tratti s’immergono nella giungla pulsante di sonorità complessivamente eterogenee, trovando nella magniloquenza l’arma a doppio taglio, di natura comunque ratificante, di un tracciato che aveva già ampiamente reso nel secondo lp “In the Future”, ma che qui dimostra, altresì, una irruenta perfezione contrappuntistica, generata in sei lunghi anni di lavoro e coronata nella diluente coreografica chiusura di Space to Bakersfield.
Adottando una formula giocosa, ironica a frizzante, i Teleman si riallacciano ai Talking Heads e ai primi Vampire Weekend evitando di prendersi troppo sul serio in questo album scritto “on the road” in tour fra un concerto e l’altro. Nessuna imitazione, ma degli innegabili punti di riferimento che divengono stampini nella colonna portante del disco: Drop Out. Beat pulsanti, synth retrò, vibrazioni elettriche palpitanti, soluzioni cristalline, seppur meno audaci di quel che possono apparire. Fra tutte le tracce, a brillare è soprattutto quella di Fall in Time.
PJ HARVEY The Hope Six Demolition Project
L’ideale crocevia fra la Polly Jean Harvey dell’immediato cambio di rotta che ha fatto innalzare il livello degli arrangiamenti (Stories From the Citiy, Stories From the Sea) e quella degli ultimi, nella fattispecie la PJ di “Let England Shake”, quella socio-politica che affronta di petto le diatribe sulla spartizione dei poteri a discapito delle fasce più deboli. I toni, dal solenne al cupo, sono ben amalgamati e in alcuni frangenti raggiungono una vitalità non indifferente, ma la sensazione è che stavolta ci siano troppa testa, pancia e meno cuore del solito. Quel che continua a stupire è però la capacità eclettica della straordinaria artista che sicuramente ci regalerà qualche altro capolavoro da qui ai prossimi anni.
CAMP COPE Camp Cope
Punk revival di un trio australiano all’esordio, a tratti dirompente, rumoroso quel che basta, eppure compatto e grintoso, con un’ottima batterista e un trascinante ritmo da garage-band sulla scia della contemporanea Courtney Barnett, concittadina di Melbourne. Uno dei migliori esordi dell’anno.
– MAGGIO –
Nono disco in studio per il quintetto di Oxford, il lavoro di sintesi della loro ammirevole poesia in musica, costellata di ritorni graditi di brani già proposti in versioni differenti sia live che in studio. Funzionali alla riuscita dell’intero disco sono gli archi, presenti in quasi tutte le canzoni, entro i quali Thom Yorke, col supporto di Colin Greenwood alla chitarra, vi applica un cantautorato subliminale su un impiantito sonoro catartico, dalle apparenze dispersive che danno la sensazione di un costante fuori fuoco. Daydreaming, Identikit e True Love Ways sono un po’ l’emblema della quadratura del percorso, che per i più non è all’altezza dei capolavori a cavallo fra ’90 e ’00, ma che per il sottoscritto è invece qualcosa di più, la loro celebrazione di massimo apporto creativo.
Al terzo posto della personale graduatoria dell’anno.
DINOSAUR Jr. Give a Glimpse of What Yer Not
Undicesimo album in carriera, quarto successivo alla benefica reunion del 2005 che ha portato la band di Massachusetts a realizzare una serie di dischi uno migliore dell’altro, con l’apice raggiunto nell’ultimo “I Bet On Sky”. Qui la formula si ripete, gira un po’ intorno a se stessa ad oltranza, ma piace lo stesso nella sua grezza incisività, tant’è trascinante la chitarra furente del leader J Mascis, tanto sono incalzanti la batteria di Emmett Murphy, quanto il basso di Lou Barlow.
– GIUGNO –
La brezza estiva, gli uccellini al mattino, il venticello rilassante, un sorso di fresco e un accompagnamento musicale perfetto per momenti di leggiadria rifinitura. Mezz’ora concentrata in dieci brani dalla presa immediata, soft-rock, pop e smaccati roots, in un andirivieni fulminante fra Beach Boys, Chicago e America. Il falsetto composto e costante di Julien Ehrlich ha la sua innegabile unicità, donando una dimensione giovanile (data anche la giovane età dei componenti della band) all’insieme delle parti. Miglior esordio dell’anno.
PAUL SIMON Stranger to Stranger
Saper sfornare un gioiello a 75 anni suonati, mettendosi ancora in discussione, tornando a sperimentare come un tempo, puntando su una nuova ricerca dei suoni, tribali o campionati poco importa, purché il mix volga verso l’efficacia. Cinque anni di lavoro per l’ennesima perla di uno dei maggiori progressisti della storia della musica, inventore di nuove armonie, cantautore fantasticamente sublime, grande sempre, anche quando fa lavori un poco meno impressivi, tuttavia sintonizzati sulla solita audacia impossibile da disconoscergli.
AUGUSTINES This is your Life
Il terzo lavoro della band americana è quello della maturità. Ballate appassionanti, strutture musicali maggiormente elaborate, persino eleganti a volte, un suono più particolareggiato anche in termini di atmosfere, melodie avvolgenti, esplosioni graffianti di energia alla Springsteen ed esplosioni vocali quasi alla Mercury. La sensazione che sia un album costruito per un pubblico più generalista viene spazzata via col passare dei minuti, poiché il crescendo è piuttosto convincente. L’energia la vince su ogni residuo dubbio.
NICE AS FUCK Nice as Fuck
Jenny Lewis, Erika Foster e Tennessee Thomas formano un trio al femminile spumeggiante, capace di coinvolgere ritmicamente senza il supporto delle chitarre, con predominanza di basso e batteria. Del tutto privo di virtuosismi, sovraincisioni, rumore, l’album viaggia su binari solitari prendendo un po’ dal punk e un po’ dal pop più ricercato, facendo molto anni ’70-’80 (soprattutto la folata The Runaways), risultando gradevolissimo nonostante il sapore decisamente vintage dell’analogico.
La sorpresa dell’anno.
Il nuovo doppio album arriva dopo l’arduo superamento di un lutto, a seguito di una battaglia che Manuel Agnelli ha personalmente superato con non poche difficoltà. Un album discontinuo ma incazzato e appassionante come pochi altri italiani degli ultimi anni, e per certi versi, seppur posto su un piano leggermente differente, ricorda il Daniele Celona dello scorso anno, per i sentimenti dal sapore ruvido che grida in primo piano a partire proprio dal primo brano, sicuro il più bello del disco; quel “Grande”, così tanto grande da ergere prepotentemente il desiderio di rinascita a partire dall’accettazione del dolore e del superamento dello stesso. Luminoso e oscuro, a tratti ti prende colpendoti in pieno stomaco, in altri momenti sembra volersi eclissare dentro la rinascita che l’inaspettata morte porta con sé.
– LUGLIO –
La sensazione che ogni anno escano perle d’inestimabile valore dal retroterra afro è assodata, e la conferma arriva in questo 2016. Dopo un buon esordio nel 2012 “Home Again”, Kiwanuka allarga la posta e la durata di alcuni brani, arieggiando nei polmoni della miglior soul music con curatissimi arrangiamenti in braccio al miglior pop, che in alcuni frangenti rasenta la perfezione assoluta nel binomio fra melodia, voce e arrangiamenti. La title-track, Falling e I’ll Never Love ce le ritroveremo a cantare da qui ai prossimi 20-30 anni. Una promessa che è già quasi certezza. Il disco entra di diritto, con pieno merito, nella top-5 dell’anno.
Ci sono voluti otto album per raggiungere una coesa maturità espressiva in Mike Kinsella, in arte Owen, che ha legato il suo nome anche ai coevi American Football, fra le migliori proposte dell’anno. Disco sopraffino, intriso di malinconia, di trame incantevoli, di soppalchi e sottopalchi da brivido. E quella sua voce ad accompagnare soavemente le soluzioni armoniche, eleganti, cangianti nei tratti distintivi della sua poetica. A produrre qui c’è S. Carey, batterista di Bon Iver. Una unione magica (vibrante nella splendida Lost) che probabilmente attendeva solo un cenno d’intesa.
Un concept album che apre una falce scura nella notte, immaginando una sposa lasciata sola sull’altare dallo sposo, appena morto in un incidente stradale proprio sulla strada che lo avrebbe condotto al matrimonio. Natasha Khan, in arte Bat For Lashes, costruisce una tessitura avvolgente di suoni in cupio-dissolvi (la magnifica e sensuale I Will Love Again), allo stesso tempo eterei, sulla linea di quel dream-pop di memoria bushiana e di risonanza melodrammatica, il tutto su un tappeto notturno di reminiscenze mistiche, a tratti un po’ tediose. Un lavoro di non facile ascolto, certamente non immediato ma solitariamente affascinante come nelle celestiali Close Encounters e If I Knew.
– SETTEMBRE –
ELUVIUM False Readings On
L’ottavo album di Matthew Cooper, in arte Eluvium, è un’opera ambient dove il canto sacro si fonde entro spasmi orchestrali di natura cinematica. Un autentico capolavoro epico, possente, un crescendo di vibrazioni dell’anima, nell’anima, per l’anima. Un disco che s’innesta dentro un tessuto densamente catartico di liberazione da un’annata piena di tragedie, senza troppi orpelli cerebrali. Non si poteva incastonare meglio nel bel mezzo del dannato 2016, dove sembra volerci venire incontro ad ali spiegate dall’alto dei cieli, esplodendo letteralmente nelle magnificenti Washer Logistic e Posturing Through Metaphysical Collapse o finendo per avvolgerci una volta per tutte nell’ipnotica Fugue State.
NICK CAVE & THE BAD SEEDS Skeleton Tree
Il dolore per la morte del figlio conduce Nick Cave a scavare dentro con circospezione, come a voler cercare la via dell’assoluzione. Un disco intimo e sofferto, profondamente introspettivo e spettrale, radicalmente essenziale, che a tratti sa lasciarti esterrefatto, come nell’andante palpeggio con l’hip-hop della geniale Magneto. Ma è nelle cadenze struggenti e libertarie, di colui che sta per togliersi un peso, che innesca l’emozione più stravolgente (I Need You, Skeleton Tree).
Erano dieci anni che mancava dalle scene Adam Torres. Torna per allietarci incantevolmente col suo magico falsetto e le sue splendide canzoni. Quasi un oggetto raro di questi frastornanti tempi pieni di caos e roboanti soluzioni chiassose, volte a costituire un magma strumentale, più che un miscuglio ben oliato di suggestioni. Torres sta lì a dimostrarcelo, facendoci provare dei brividi in special modo quando decide di crescere, salire di tono, almeno dalla straordinaria Outlands.
KING CREOSOTE Astronaut Meets Appleman
Kenny Anderson, ovvero King Creosote, cantautore scozzese, uno dei più prolifici degli anni ’00 con la bellezza di trentuno full-lenght, sfodera una nuova ricercata (ripulita) costruzione musicale che sa prendersi amabilmente i suoi tempi. Come sempre, il folk tradizionale si sposa a meraviglia con le soluzioni più ricercate del pop, su un’impalcatura vocale leggiadramente calda e piacevole, carezzevole come un placido vento autunnale, lampeggiante nelle stralunate soluzioni oniriche.
JASON SHARP A Boat Upon Its Blood
Un interessantissimo autore canadese capace di fondere l’ambient con il free-jazz, in un labirinto di stratificazioni noise. In bilico fra composizione e improvvisazione, Sharp non rinuncia alla cerebralità in questo lavoro che fa dell’underground un crocevia dialettico con la tradizione basica dei generi ai quali si rivolge con magnetico acume.
– OTTOBRE –
AMERICAN FOOTBALL American Football (LP2)
Era dal 1999 che non si sentivano gli American Football. Riprendono da dove avevano lasciato, con qualche risorsa in più, proseguendo il discorso lasciato aperto con l’album che prendeva alla lettera il loro nome, del resto come nel secondo capitolo, solo che a crescere sono gli arrangiamenti e la maturità dei suoi componenti. La cosa che colpisce di questa band è il loro sintonizzarsi con lo stato d’animo dei giovani in quest’epoca complessa e barbara, attraverso un “mood” malinconico e sospeso, schivo, a momenti indulgente sugli stessi toni, che non si mette mai a gridare, piuttosto scegliendo di accarezzare con tonalità semplici, dritte ma non piane, efficaci nella sperimentazione della irregolarità dei tempi, con ritmiche contrastanti su un’innervatura pop di alto livello. Non a caso, l’album si apre proprio con una specie di canto di benvenuto, riflettendo al contempo su “Where Are We Now?”.
Della scena post-punk dark-ambient giungono al secondo disco i Black Marble, provenienti dalla scena di Brooklyn. La personalità di Chris Stewart si sprigiona al meglio con i The Cure, Joy Division e New Order nella testa (Iron Lung, con quell’eccitante giro di basso è esemplificativa, così come la danzereccia Frisk).
Il disco è stato interamente scritto, registrato e missato dallo stesso Stewart, capace di donargli un sound significativamente ipnagogico. La linea d’elezione è piuttosto circoscritta a fine ’70 inizio ’80, ma le atmosfere sono rinnovate nel gioco ficcante con i synth e non annoiano mai nei 36 minuti di durata, facendo immaginare una sorta di club dove si balla a ritmi scanditi musica dark-dancey.
Il settimo album per Caleb Followill e soci, registrato in California grazie alla nuova produzione di Markus Dravs (Arcade Fire), fa giungere ad una sua naturale evoluzione, rispetto alla zona comfort pop-rock degli ultimi due, le traiettorie musicali della band americana. Non una svolta, piuttosto una evoluzione nel sound, nella pulizia del suono, nel ritorno degli accattivanti ritornelli dove la voce del leader torna a vibrare in alcuni a-solo degni del suo nome. Accenni new wave, strizzate d’occhio alle recenti produzioni di Mumford & Sons e Franz Ferdinand, nonostante i testi ci parlino sovente di sogni infranti, persone che non ci sono più, fantasmi del passato, cuori aperti.
KINGS OF LEON – Walls
LEONARD COHEN You Want It Darker
Leonard Cohen meritava il Nobel quanto Dylan. Ci ha lasciato un altro gigante della storia della musica, un vero poeta della parola, della forma canzone che sembra parlare quasi una lingua a parte. Vero è che la maturità è trascorsa da un pezzo ma la classe è sempre la stessa. Questo disco esprime bene i chiaroscuri della scrittura del poeta canadese, con ballate sconsolanti che lasciano intravvedere una luce, un faro nella nebbia, un lampo nella notte. Scuro, ruvido, suadente incantatore capace come pochi di accarezzare il gospel ù (specie nella magnifica Leaving the Table di questo indimenticabile teastamento). Il ciclo vitale volge al termine mentre si è accarezzati da una lieve, lusinghiera sinfonia.
THEGIORNALISTI Completamente Sold-Out
L’album pop italiano dell’anno. Si alza ulteriormente il livello di hit radiofoniche ma la linea basilare è identica, i ritornelli e i refrain entrano in testa con facilità grazie alla loro incisività, gli arrangiamenti sono ben curati, la voce di Tommaso Paradiso cova uguale forza e immediatezza nelle melodie, almeno rispetto al precedente “Fuoricampo”, l’album che li ha fatti decisamente crescere. Lucio Dalla è un punto di riferimento imprescindibile, come lo è il Battisti degli anni ’80, il Max Pezzali degli 883 di maggior successo, ma dentro c’è molto, specie nei testi semplicistici, anche di Antonello Venditti e Vasco Rossi. La band romana, dopo i primi due album autoprodotti, è arrivata a fare il grande salto e data la risposta degli ascoltatori, sembrano aver trovato la formula giusta.
– NOVEMBRE –
Nick Drake sembra essersi reincarnato in Gareth Dickson. Stessa attenzione, pari intelligenza, medesima affabulante poesia musicale, uguale timbrica. Unica differenza, un maggior sconfinamento nelle tessiture musicali ambientali.
Benvenuti alla corte di sir Dickson ordunque, che non a caso è britannico. Aleatorio, sognante, pulito nel senso migliore del termine, a tratti sensazionale album di riverberanti perle asciugate nella loro essenza comunicativa, dove le pulsanti corde della chitarra sembrano elevarsi a qualcosa d’altro per la modalità con cui si librano in fingerpicking e per la maniera con cui sono abbellite per mezzo di arrangiamenti coagulativi. Lo splendido disco, nella rosa dei grandissimi dell’anno, si chiude su un’incantata rivisitazione di un brano dei Joy Division.
AMERICAN WRESTLERS Goodbye Terrible Youth
Dopo l’interesse suscitato attorno alla produzione indipendente, letteralmente fatta in casa, del disco d’esordio, che ha portato alla nuova produzione da parte della Fat Possum Records, il leader Gary McClure mette su una band e firma questo vero primo disco d’esordio. Ritmi youth-rock molto americani, schitarrate trascinanti, melodie giovaniliste, ritmo e arrangiamenti coinvolgenti che solo a un superficiale ascolto potranno sembrare easy. Un disco che mal si addice ad una uscita novembrina, l’energia è sicuramente da inizio estate!
Il gruppo svedese capitanato dai gemelli Strängberg torna in attività dopo una lunga serie di beghe legali delle quali non sono stati responsabili ma che li hanno coinvolti in prima persona a seguito della sospensione di un concerto.
Producono il nuovo disco, di gran lunga il migliore della loro breve carriera, anche grazie al crowdfunding. Le atmosfere sospese rimangono le stesse, intatte, sublimando gli accenni a quel dream-pop ricco di rifiniture elettroniche che caratterizza l’impianto del loro lavoro. Sondando le auree cosmiche, in anfratti ambient (Dvala) la band sintetizza al meglio la inebriante malinconia complessiva del tono generale, esaltandola con Omega, cuore pulsante dell’intero album.
Reincidere alcuni brani storici in versione unplugged e donar loro un nuovo respire. Anche di questo sono capaci i sempreverde Simple Minds. Via l’elettronica che tanto ha pesato nelle produzioni di maggior successo della band scozzese e spazio al fascino abile dell’acustico. Vero che si tratta di un disco fondamentalmente per nostalgici, ma vale la pena farci un giro su, poiché si discosta dai vari “best of” organizzati da etichette che non fanno altro che assemblare le maggiori hits senza un ordine, né una nuova forma che doni ai brani nuova linfa vitale.
– DICEMBRE –
Dopo svariati anni di concerti live, singoli ed extended playlists, il duo di Kingston, Claire Heywood (voce, batteria) e Paolo Ruiu (chitarra), giunge all’esordio con un suono fragoroso e potente di stampo shoegaze, che trova la sua chiave di volta nelle grazie della voce femminile, vagamente somigliante a quella di Kate Bush.
I pezzi viaggiano su ritmi alti, e anzi, si parte altissimamente con la trascinante Pale, rintracciando ritmi affini poco oltre con Pulling at the Grey, sulle corde delle dovute pause riflessive (la splendida Cracks) e con poche deviazioni dalla traiettoria della linea generale di assalto.
Come album del mese di dicembre non ha molti rivali, anche se un pizzico di originalità in più in alcuni frangenti gli avrebbe ancor più giovato. Ma c’è da considerare che questo è solo l’esordio e la maturità potrebbe portare a risultati sorprendenti.
La copertina del disco, dove le scarpe, presumibilmente quelle di Claire, sono in primo piano pronte a salire il prossimo scalino (o vitale step), ripulite e tirate a lucido, lasciano presagire che questo, del resto, è solo l’inizio. Al secondo posto, ex-aequo con Holy Esque, dei migliori esordi dell’anno.
Un altro di quegli artisti immortali duri ad arrendersi, di quegli eterni indissolubili capaci di digrignare i denti anche quando sembrano andare piano, ingannando gli altri, quando invece stanno solo rallentando il passo andante. Suona molto classico questo disco ma contrariamente alle ultime uscite, anche quelle più sperimentali e non molto azzeccate, sembra avere uno smalto nuovo, decisamente più convincente. L’anima del disco è senza ombra di dubbio la title-track, un compendio del miglior Young sintetizzato in un solo brano, dove elettrica e acustica si sovrappongono con una registrazione della voce particolare, in modo da innestare come delle trame e sottotrame vocali. Spiace che il resto, dato l’alto livello della prima canzone, sembra allontanarsi eccessivamente sfrondando nella lineare medietà di molti suoi dischi dagli anni Ottanta in poi.
Ma quel tocco, il suo tocco, quella inconfondibile mano, stavolta torna per fare il suo giro con cristallina onestà.
Federico Mattioni, rapportando la vita e i sensi al cinema, sta tentando di costruire un impero del piacere per mezzo della fruizione e della diffusione delle immagini, delle parole, dei concetti. Adora il Cinema, la Musica e la Letteratura, a tal punto da decidere d’immergervi dentro anche l’anima, canalizzando l’energia da trasformare in fuoco, lo stesso ardere che profonde da tempo immemore nelle ammalianti entità femminili.