Alessandro Bordini, classe 1985, è un autore veronese. Ex paracadutista, dopo un incidente in fase di atterraggio ha perso la vista… ma non ha rinunciato all’avventura. Il suo romanzo d’esordio Il giro del mondo come non lo avete mai visto, oltre a farci immergere nella realtà di molti paesi africani, è il resoconto di un viaggio intercontinentale compiuto dall’autore, nonostante o, forse, “in virtù” della sua cecità. Coach, autore e fervido lettore, ama condividere ciò che può portare valore alle persone. Crea progetti – come un innovativo puzzle per non vedenti – e segue l’istinto, Tra una presentazione e l’altra del suo libro, condivide sui social il suo amore per la crescita personale e per i viaggi… e la sua cecità. «Ti faccio vedere la mia vita non per un fattore edonistico» dice, «ma per mostrarti come preparo un caffè, per farti capire che anche un cieco si fa il caffè e non è una cosa trascendentale».

Raccontaci il tuo rapporto con la scrittura…

La prendo alla lontana. Avrò avuto cinque o sei anni. La domenica mio padre non lavorava, così, appena svegli, io e mia sorella ci fiondavamo nel lettone dei genitori. Cominciai in quei momenti ad inventare storie di un personaggio fantastico, che avevo chiamato “Volìam”. Si cacciava spesso nei guai ma alla fine ne usciva sempre vittorioso, usando il suo superpotere: il volo.

Mi divertivo tantissimo e, da quanto ricordo, tutto ciò era piacevole anche per i miei ascoltatori. Ogni volta mi dicevano: “raccontaci un’altra storia!”. Oggi abbiamo forse perso la capacità di abbandonarci così alla fantasia, come se non si fosse mai stati bambini.

Alle elementari ho iniziato a comporre brevi poesie a rima baciata e alternata. Ricordo una raccolta dedicata alle quattro stagioni, forse ispirata dall’opera di Vivaldi. La poesia che mi era uscita meglio era l’Estate.

Si è trattato di un percorso discontinuo. Fino alle scuole medie ho sviluppato più che altro la mia parte logica e scientifica. Mi riusciva bene la matematica, mentre vivevo la scrittura in maniera conflittuale. La maestra diceva che scrivevo bene ma che ero troppo sintetico. Alle medie, quando ci veniva chiesto di scrivere un tema, lo realizzavo direttamente in bella copia. Una cosa che non facevo mai, nemmeno in matematica, era rileggere il lavoro svolto prima di consegnarlo. Era l’orgoglio che me lo impediva: dovevo essere in grado di fare tutto correttamente al primo colpo, e ciò non accadeva quasi mai.

Poi alle superiori si è incrinato il rapporto con le materie scientifiche, poiché pretendevo di essere bravo anche senza studiare. E così mi sono ridato alla scrittura attingendo al mio lato creativo. La simpatia per la professoressa di italiano mi stimolò a scrivere con impegno, gli ottimi risultati erano per me motivo di orgoglio e di soddisfazione. Inoltre componevo poesie per le ragazze che mi facevano battere il cuore, data la mia timidezza era l’unico modo che avevo per trasmettere i miei sentimenti. Come un moderno Cyrano de Bergerac, fisicamente dotato e abile con la penna, subivo le ripercussioni derivanti da un naso importante, e a poco a poco consolidai la convinzione di essere di brutto aspetto.

Le mie poesie riscuotevano un gran successo, ma il timore del rifiuto mi rendeva difficile espormi.

All’epoca non presi in seria considerazione la scrittura. Mi veniva ogni tanto il pensiero di abbozzare qualcosa di più elaborato, come un romanzo. Poi, al di fuori della scuola, iniziai ad appassionarmi alla letteratura classica: mi innamorai dello stile di Hemingway, venni catturato dalla deliziosa inquietudine che mi pervadeva leggendo Edgar Allan Poe, e Dostoevskij provocò in me un doloroso e intrigante desiderio di immergermi nei meandri più reconditi dell’animo umano.

Oggi come vivi la scrittura? Hai una tua routine?

La mia routine da scrittore prevede la creazione di un “momento”, di un’atmosfera idonea: la mattina presto faccio meditazione, le successive due ore sono le più produttive della giornata, che sfrutto per trasformare i pensieri in parole scritte. Non sempre la voglia e la fantasia emergono. Se mi rendo conto che in un determinato momento la mia parte creativa è assopita, lascio passare del tempo e mi dedico ad altro. Devo attendere quel momento di produttività per scrivere. Come i cestisti che dicono di sentirsi la “mano calda” quando sono in partita. Avere una routine è importante, perché mi permette di creare le migliori condizioni per scrivere al meglio.

Durante la scrittura emerge quella parte di me che era presente anche alle scuole medie. Provo quasi un senso di fastidio o di timore nel rileggermi. Poi dipende da quali corde lo scrivere ha toccato. Ci sono stati dei passi del mio libro che ho scritto di getto e che ho ripreso solo al termine della prima stesura. Altri punti, invece, sono stati riletti parecchie volte e ho cercato di rifinirli al meglio sul momento.

Durante la giornata di solito mi dedico ad altro: studio PNL, coaching e leggo libri che spaziano dalla crescita personale alla spiritualità.

Una parte di ogni giornata è dedicata all’attività fisica. È una triade che coinvolge tutto ciò che siamo: corpo, mente e spirito.

Il tuo libro Il giro del mondo come non lo avete mai visto ha anche uno scopo concreto, di beneficienza. Come nasce l’idea?

L’idea è nata nel 2022, parlando con David, un amico con cui ho fondato Blooming Kids, un’associazione a Kampala, in Uganda, che promuove la scolarizzazione. Oltre a Tina, che dal 2013 riceve il mio supporto per lo studio, c’erano molti altri bimbi a cui sarebbe servito aiuto.

In quel periodo stavo terminando il percorso per diventare coach. Uno dei ruoli di questa professione è quello di aiutare le persone a raggiungere i loro obiettivi.

Tina, che oggi ha quattordici anni, è una leader: capo di istituto e rappresentante studentesca, una ragazza responsabile e capace, fiera, forte, ha carattere. Quando l’ho conosciuta non aveva neanche quattro anni, era orfana e riceveva sostegno dai familiari rimasti.

L’idea di Blooming Kids è esattamente questa: dare fiducia e fornire il supporto necessario affinché tanti bimbi possano crescere in un ambiente che ne stimoli lo sviluppo di mente, corpo e spirito.

La gente merita la nostra fiducia. In ogni persona c’è un seme che può germogliare e dare i suoi frutti, e se sentiamo di offrire una mano siamo liberi di farlo.

 

Tu cosa cerchi in un libro?

Ultimamente cerco avventura, che in questo periodo di pochi spostamenti non sto vivendo. Leggere è una forma di nutrimento, e come possiamo ascoltare cosa il nostro organismo ci chiede, così i libri possono servire per fornire alla nostra anima un certo tipo di sostentamento.

Non so se sarò mai più in grado di provare il brivido che mi dava il paracadutismo, o di emozionarmi al cospetto dell’immensità di certi paesaggi selvaggi. Seppur in forma diversa, con certi libri posso ritrovare quella libertà e il piacere di esplorare mondi sconosciuti, al di là del tempo e dei limiti che ci poniamo. Ritorno ad incarnare lo spirito di “Volìam”, che trovava dentro di sé il potere di affrontare ogni cosa gli capitasse. Uno dei miei scrittori di fantascienza preferiti è forse Jules Verne, ma il romanzo che raggiunge gli estremi più occulti della mia anima è senza dubbio Il maestro e Margherita.

 

Cosa significa per te “avventura”?

Viaggiare. Ma anche promuovere il progetto del puzzle o l’attività di coach sono avventure.

L’avventura la puoi vivere col tuo fisico, viaggiando, ma anche restando fermo e toccando nuove frontiere con la mente. Il paracadutismo è stato un’avventura. Ma anche viaggiare a livello profondo nella vastità dell’animo umano. Quando ho incontrato storie sull’apartheid, sulle guerre e i conflitti in Africa troppo spesso taciuti, ad esempio.

L’avventura più affascinante è quella che compiamo col nostro cervello e con l’anima: fin dove possiamo arrivare?

L’avventura è un mondo dai mille volti, mantenendoci curiosi non finiremo mai di scoprirne di nuovi.

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