Abbiamo intervistato il cantautore romano che torna con un nuovo lavoro discografico in cui ripropone “Altre emozioni”, un brano scritto con il grandissimo Sergio Endrigo 

«Tutto ingoiano le nuove belve, tutto – / si mangiano cuore e memoria queste belve onnivore» scriveva Vittorio Sereni Nel vero anno zero (Gli strumenti umani, 1965), individuando senza mezzi termini la vera natura dei suoi contemporanei, e Vincenzo Incenzo nel nuovissimo Zoo sembra gridare e cantare la stessa diagnosi con la stessa mai stanca né sconfitta militanza. Dopo due album, (Ego e Credo: tra i migliori della nostra musica degli ultimi decenni), il cantautore romano torna infatti con un disco che dall’inizio alla fine pulsa d’etica civile, tra prese di posizione e ficcanti j’accuse, in linea con i lavori precedenti ma con una spinta estetico-politica ancora più marcata.
Strutturato in dieci tracce (nove inedite più Altre emozioni, scritta per e con Sergio Endrigo nel 2005), prodotto con rara cura da Jurij Ricotti, Zoo è insieme narrazione e riflessione sul bestiario contemporaneo di cui, ci piaccia o no, siamo parte ed esemplari – tutti. Sta forse qui la specificità (e il coraggio) della canzone e dell’impegno di Incenzo, in questa volontà di dar voce a una coscienza tutta umanista di responsabilità e consapevolezza che evita ogni retorico moralismo e populismo, coinvolgendo popolo e potenti, vittime e carnefici, dominatori e dominati. Immerso fino alla frustrazione nella contemporaneità di cui fa parte, troppo coinvolto per starsene in silenzio eppure sempre artista, raffinato artigiano di bellezza nel costruire testi e musiche che non dimenticano la propria peculiarità di opere d’arte, Incenzo continua, infatti, a stimolare gli ascoltatori senza assecondarli, portando avanti una proposta culturale dalla portata più ampia, dedito con stesso trasporto alla polemica e alla lirica, alla lotta e alla contemplazione.

È così che, senza perdere in organicità, Zoo può alternare fendenti d’extrabeat e d’elettronica, di rap e distorsione (Pornocrazia, Povero tempo, Non è vero, L’angelo del cash, sorta di tetralogia-sfogo che spiazza e disturba, tanto coglie nel segno senza censure né, soprattutto, auto-censure) a energiche strette di mano (La tua rivoluzione) e vere e proprie carezze, tra ballad romantiche e trascinanti elegie (Solo al mondo, Non c’è una fine mai) che ribadiscono, ancora e ancora, quanto originale e preziosa sia la penna di Incenzo, nutrita di quei grandi (cant)autori cui lui non ha nulla da invidiare (Vecchioni, Fossati, Guccini, De Gregori…): «Se ti calpesteranno vanne fiero / ché l’erba calpestata è già un sentiero»; «Ma il rumore più assordante / che io abbia mai sentito / non è una bomba per le strade / ma il vestito tuo che cade». Sperimentale e classico, urgente e meditato, agguerrito e innamorato, Zoo è allora l’ennesima prova della statura di Incenzo, uno dei pochi, oggi, nella cosiddetta musica leggera, che alla vanità dello streaming e dei follower sa contrapporre la solidità di un progetto.
Progetto che prevede anche una nutrita serie di live, prima in Italia (Palermo, 27 maggio; Venezia, 2 giugno; Milano, 3 giugno; Napoli, 5 giugno; Castel Fusano, 11 giugno) poi in America Latina, e che non ha impedito a Incenzo di trovare il tempo per rispondere a qualche nostra curiosità.

Dopo Credo e Ego, torni con Zoo: come definiresti questo tuo nuovo album e cosa c’è di diverso, in più, rispetto alla tua passata produzione?
Credo che Zoo focalizzi in maniera definitiva i miei intenti di cantautore, peraltro evidenti sin dal primo album, e che segni la strada per i prossimi lavori, in cui sempre più la dimensione intima e quella civile cercheranno coesistenze creative ed originali. Ho definitivamente assimilato dei codici che mi permetteranno di continuare in un percorso credo unico e solitario nel nostro scenario. In Zoo la parola e il mood ritmico sono più che mai il punto di partenza per generare poi le canzoni e di conseguenza le stanze sonore, in armonia con la produzione di Jurij Ricotti. L’altezza da cui tentare il salto è sempre più considerevole; zero filtri nel linguaggio (infatti già due teatri mi hanno chiesto di omettere nella scaletta un paio di canzoni, e questo mi onora), zero mode (ma attenzione a tutto il nuovo) e scelte operate in totale autonomia.

Il tuo è un cantautorato evidentemente impegnato, che riesce a essere sempre in equilibrio tra estetica ed etica, forma e contenuto, che non si accontenta di intrattenere l’ascoltatore e, anzi, gli chiede una presa di posizione: morale, sociale, politica. In questo senso, nel panorama contemporaneo, la tua è una proposta più unica che rara: la canzone può essere davvero una leva civile, uno strumento militante? Perché e quando, secondo te, si è perso questo senso-dell’impegno nella canzone d’autore?
Il mio percorso, iniziato tanti anni fa al Folkstudio, si è plasmato su quell’eredità concettuale, secondo cui le canzoni devono avere una ragion d’essere, altrimenti parliamo solo di sottofondi in sale di attesa e stimolatori pubici sulle spiagge. Sono convinto che sia un discorso ancora necessario. La canzone, straordinario strumento di comunicazione immediata, deve essere sentinella del suo tempo, sollevare domande, cercarti dentro. Il generalismo vigliacco che ha assalito tutti è frutto della collocazione che hanno dato oggi alla musica e all’Arte in genere. Vedere i profeti delle rivoluzioni di un tempo oggi sotto padrone mi fa sorridere se non indignare. Si è deciso che l’Arte debba essere sinonimo di “divertimento”, come ha precisato anche qualche premier, quindi bene non necessario, accantonabile in nome di altre priorità. Io credo invece che attraverso l’Arte si possano evitare le guerre, come è stato in altre Russie in altre epoche. Avere una coscientizzazione artistica dovrebbe essere un diritto, se non un dovere, per tutti, uno strumento di lotta, soprattutto in un’epoca come questa che livella le differenze. Creare è dare ordini nuovi, rompere continuità; niente di questo oggi avviene. Depotenziare il messaggio invece è la regola, e in questo ero stato presago nel mio romanzo Romeo & Giulietta nel duemilaniente [No Reply 2014], in cui immaginavo un ministero impegnato nel privare di senso l’Arte di ogni tempo per rimodellarla al servizio suoi imperativi produttivi. Si fanno canzoni per bambini ormai, allo Zecchino d’Oro ci sono sicuramente più contenuti.

Come nei tuoi altri album, alla critica sociale, all’impegno, affianchi e mescoli lirismo e (nel senso più buono del termine) romanticismo, che sembrano avere la priorità sulla musica, sembrano determinarla. È un’impressione corretta o per te, invece, testo e musica hanno stessa urgenza, stesso grado d’importanza?
Sono d’accordo, la parola crea la stanza, come ti dicevo, in cui la musica inizia a determinarsi, a livello di senso, di combinazione melodico-armonica e di suono.

Zoo si chiude con Altre emozioni, che scrivesti per Sergio Endrigo: perché, tra le tantissime che hai scritto per altri, hai scelto di recuperare e inserire proprio questa canzone? 
Altre emozioni è l’ultima canzone cantata da Sergio su questa Terra, e sarebbe già abbastanza per celebrarla in un album. È una testimonianza (parola sorgente di tutte le canzoni del mio album), in un momento in cui nessuno è testimone; è un sospiro che si fa strada nel rumore, per dire che la folla ha perso e bisogna tornare all’uno per uno, esponendo le proprie fragilità e rischiando anche scelte che portano angoscia, ma senza più delegare; Altre emozioni ci sta bene in questo disco, nel suo lirismo intimista è una canzone di rivoluzione. È poi una canzone che mette al centro il pianoforte, e annuncia in qualche modo il mio tour “essenziale” che intende portare in ogni città possibile le mie canzoni spogliate di ogni orpello per toccare direttamente la pelle del pubblico. Credo che la gente mai come oggi abbia bisogno di verità e di trasparenza.

Di Sacha Piersanti

Nasce a Roma nel 1993. Scrittore e critico teatrale, ha pubblicato i libri di poesia Pagine in corpo (Empiria, 2015) e L’uomo è verticale (Empiria, 2018) e il saggio critico Zero, nessuno e centomila. Lo specifico teatrale nell’arte di Renato Zero (Arcana, 2019). Dal 2017 collabora con il blog di R. di Giammarco Che teatro che fa su Repubblica.it.