“Non siamo destinati a salvare il mondo: siamo destinati ad abbandonarlo”. E’ questa l’idea dei ricercatori della NASA in una fase in cui la Terra vive una profonda crisi di approvvigionamenti, che, complici continue tempeste di sabbia, riduce di anno in anno i raccolti. Siamo in un ventunesimo secolo alternativo, il pianeta è sull’orlo del fallimento, si respira un clima di depressione e paura, e la calma piatta apparente dipinge sul viso di chiunque il pallido terrore di non avere futuro. Il cibo è il bisogno primario, sembrano non esserci strade alternative al fallimento, se non quella di esplorare altri mondi. “Interstellar”, ambiziosa pellicola di Christopher Nolan, racconta proprio questo. Protagonista, un Mattew McConaughey in stato di grazia, che interpreta Cooper, vedovo, padre di due figli, ingegnere ed ex pilota della NASA, diventato agricoltore per necessità. Cooper vive con i due figli preadolescenti Tom e Murph e con il suocero Donald. Il rapporto con la figlia è particolare e specialissimo: la piccola ha la passione del padre per l’astronomia, ma un carattere forte e determinato, che la porta a rompere con il genitore quando questi, in modo apparentemente inspiegabile, decide di partire per una missione interplanetaria della NASA, il cui intento è quello di esplorare altri mondi, accessibili mediante un wormhole. La galleria gravitazionale, teorizzata dall’équipe di ricercatori guidata dal dottor Brand, potrebbe portare a scoprire nuove realtà interstellari abitabili, dove dare nuova speranza all’umanità. La missione inizia, e tempo e spazio si dilatano inesorabilmente, quasi fino a ricongiungersi in modo inspiegabile e miracoloso, in una storia che accoglie in sé la lezione dei classici della fantascienza – uno su tutti, ovviamente, “2001: Odissea nello spazio” – con l’ambizione di superarla, e con tutta la forza e la qualità per farlo. Nolan, la cui scrittura cinematografica non conosce certo strade facili e già percorse, disegna una parabola di forza e di commozione che si svolge su due piani narrativi – l’azione nello spazio e quella sulla Terra – e che consegna alla storia del cinema un antieroe che ha il volto affidabile di McConaughey. A lui, padre apparentemente degenere, che abbandona i suoi figli pur sapendo che quasi sicuramente non li rivedrà più, è affidata la missione delle missioni, quella che potrà salvare l’umanità dalla catastrofe. La sua prova d’attore è da cineteca: senza giganteggiare, resta l’uomo della porta accanto, che il giorno prima accompagnava i figli a scuola e piantava il mais. Forse è proprio questo che il cinema americano di oggi riesce a raccontare meglio, senza esaltazioni, con in testa le preoccupazioni che la crisi economica sta portando al paese, ma senza voler sminuire ciò che, nel bene e nel male, gli Usa hanno rappresentato per il mondo. Significativo a questo proposito il riferimento, nel plot narrativo del film, alle missioni spaziali dell’Apollo e alla volontà, da parte degli insegnanti dei figli di Cooper, di negarle, per invitare i ragazzi a crescere stando con i piedi per terra, senza voler foraggiare sogni di gloria che, causa il presente, non potranno essere alimentati. Così come significativi sono le declinazioni narrative che mettono i evidenza per i personaggi non solo qualità positive – il sentimento, il coraggio, la tenacia – ma anche componenti più abiette – la vigliaccheria, la bugia – che fanno inevitabilmente parte dell’humus terrestre, e che con l’uomo resteranno, anche se egli dovesse proseguire la sua avventura su altre galassie.
Efficace il cast che ruota attorno al protagonista, a cominciare dal secondo nome in cartellone, quello di Anne Hathaway, qui sacrificata a un ruolo marginale: il suo personaggio, infatti, non lievita per come le premesse lasciavano sembrare, la sua storia – che nasconde un profondo dolore – si svolge in maniera discreta, e il finale ce la riconsegna con ancora tante cose da dire, quasi a voler presagire future evoluzioni in un eventuale sequel. Ci sono poi Michael Caine, autorevole quanto basta nel dare affidabilità alla figura del dottor Brand, e Matt Damon, astronauta che Cooper e soci risvegliano dal sonno criogenico, e che infine mostra una coscienza tutt’altro che limpida. E c’è Jessica Chastain, la Murph che da bambina ribelle diventa la chiave della storia, incarnando appieno la volontà e la tenacia umana nel lasciarsi guidare dall’amore come unica forza capace realmente di trascinare le convinzioni terrene di tempo e spazio. Ricca di citazioni la trama, e densi e vivi i dialoghi: 161 minuti scorrono via senza noia, e senza che il 3D intacchi di plastico un film che merita senz’altro applausi.