Bilancio più che positivo per la tre giorni che a Cosenza ha visto protagoniste diverse compagnie calabresi nell’evento organizzato da Scena Verticale

Il More si sposta al Castello. Temporaneo trasloco battezzato, venerdì sera, da una pioggia violenta e inattesa. Si respirava aria di intimità alla prima serata di Focus More Calabria, rassegna ideata da Scena Verticale con il patrocinio di Comune di Cosenza, MiBACT e Regione Calabria. La cornice, quella magica e solenne del Castello Svevo, un capolavoro di arte e storia da poco più di un anno finalmente restituito alla città dopo troppi decenni di privazioni. Ma l’imperiosità che un tale edificio potrebbe suggerire è stata sostituita da un’atmosfera raccolta e appunto più intima. E non è stata affatto una sensazione negativa, anzi. E’ mancato, in parte, il pubblico che solitamente aveva popolato e ravvivato il Morelli nei venerdì divenuti ormai piacevole consuetudine per i cosentini desiderosi di confrontarsi a casa propria con il meglio della scena teatrale contemporanea. Una platea perlopiù universitaria, a sottolineare la vocazione di un comprensorio urbano frizzante per idee e stimoli, e capace di interagire, al Morelli molto più che al Rendano, con proposte spesso provocatorie e spiazzanti. Una platea solo in parte replicatasi tra le mura del vecchio ma rinnovato Castello, con un’età media allegramente under.
Ma, mai come in questo caso, oltre a rammaricarci per loro, potremmo dire che gli assenti hanno torto, e che qualità non è sinonimo di quantità. Esserci è stata davvero una bella sensazione, ed è servito a trasportarci in una dimensione inattesa. Un battito d’ali possente ed energico, che ha dimostrato quanto il teatro calabrese sia in pienissima salute e che, anzi, soffra perlopiù per mancanza di spazi e opportunità, ma non certo per idee e per il coraggio di metterle in pratica, sperimentando, agendo, operando spesso tra mille e più difficoltà, ma sicuramente non senza talento o voglia di fare.

Con il rammarico, in premessa, di non aver potuto seguire tutti gli spettacoli in programma, abbiamo visto “Un vecchio gioco”, “La città e il desiderio” e “Rockoedipus”. La prima piéce, una produzione della reggina Scena Nuda, ha visto rappresentare un testo di Tommaso Urselli per la regia di Filippo Gessi. Teatro contemporaneo, che indaga con inattese connotazioni psicologiche su quella che dovrebbe essere una certa ordinarietà del male, inevitabile per la natura umana, quasi quanto per le api lo sia la produzione del miele. Il ‘vecchio gioco’ è quello che porta al massacro dei personaggi in campo, vittime e carnefici, snaturati della propria essenza di creature ragionevoli e invece caricati di una certa belluina ferinità che li mette l’uno contro l’altro, in una sorta di rincorsa delirante verso il trionfo dell’entropia dilagante. Significativa performance per gli attori in scena, dallo stesso regista Gessi a Luca Fiorino e Teresa Timpano, convincenti nel delineare una partita di ruoli animata dallo spirito di impronta hitchockiana che sembra quasi godere dell’innata violenza che pervade l’animo umano.
Sensibilmente diverso “La città e il desiderio”, spettacolo itinerante a cura di Confine Incerto e Conimieiocchi, in programma per più sessioni riservate a un massimo di 15 persone per volta. Viaggiatori e non spettatori, dunque, per un percorso che si dipana lungo gli spazi del Castello e che, attraverso le tecniche della metodologia ludico-creativa, stimola la memoria e l’essenza di ciascuno, con l’invito a mettere al centro della propria esistenza il desiderio, ovvero l’input che smuove istinto e coscienza insieme, e che sprona e giustifica ogni azione. Le pietre sono l’elemento che accomuna i passi del cammino. Pietre antiche (quelle che, per citare il Guccini di “Radici”, non emettono suono, ma che in realtà, proprio come il mondo e come il sole, “parlano parole troppo grandi per un uomo”), che nell’immaginario collettivo sono emblema di costruzione e di realizzazione, se si pensa alle case che compongono un agglomerato urbano e quindi una comunità, e che esprimono il senso solido, del desiderio. Quello che alla fine resta, sotto forma di pietre inanimate ma ricche di bisogni e depositarie di progetti, speranze, illusioni, utopie. Un tema calviniano, se si pensa all’influenza de “Le città invisibili”, che si respira qua e là grazie anche ai volti e alle espressioni di Emanuela Bianchi, Maria Grazia Bisurgi, Audrey Chesseboeuf, Monis Pandhu Hapsari, Lello Russo, Ganchimeg Tsedevdorj, Francesco Votano, che nella loro interpretazione giocano con lo spettatore, coinvolgendolo appieno in un contesto ludico e riflessivo, che lascia alla fine l’amaro in bocca per aver assistito a un sogno senza essere riusciti a coglierlo appieno.

Sugli antipodi senz’altro “Rock Oedipus”, produzione di Teatro Rossosimona, spettacolo tutt’altro che intimo, dove la drammaturgia mitologica greca viene riletta con la violenza elettrica di una Stratocaster. Un esperimento ambizioso, messo in scena da Manolo Muoio e liberamente ispirato, tra gli altri, a testi di Sofocle, Eschilo, Eliot e Brecht, ma anche all’antiEdipo intriso di capitalismo e schizofrenia di Deleuze e Guattari, e all’estetica della sparizione di Virilio. Il palco diventa così emblema di un universo parallelo, nel quale convivono le ansie e le fobie ossessive e deliranti di un protagonista isolato nella propria follia, un antieroe rock che, grazie alla chitarra di Luca Pietramala, pesca nel repertorio di Doors, Stooges e Velvet Underground gridando la propria rabbia anarchica che sa di fallimento ma che eleva la propria caducità oltre ogni umana debolezza. Menzione particolare per Muoio, che pensa in grande (lo spirito di David Bowie ne sarà certamente contento) nell’incarnare la propria natura di angelo caduto in terra, ma purtroppo penalizzato da un’acustica poco incline a raccogliere gli stimoli necessari a ciò che gravitava nell’aria.
Infine, una nota a margine per “La mia idea. Memoria di Joe Zangara”, spettacolo di Ernesto Orrico con la collaborazione musicale di Massimo Garritano. Avevamo già avuto occasione di vederlo in una cornice particolare, quella dell’ex Convento di Belmonte, in un contesto intimo, da cui emergevano già le potenzialità intrinseche di un lavoro costruito con intelligenza e coraggio. Stare dalla parte del torto per raccontare la parabola dell’emigrante, emblema di una umanità dolente che paga colpe non proprie, non è facile: e Orrico mette in scena una verità che solo il teatro può costruire, come tale capace di contrapporsi a quella storica che parla la lingua asettica dei tribunali e che cancella, bruciandola, ogni forma di memoria e dignità.

Ecco, questo è stato il nostro More Focus Calabria: un’esperienza unica che speriamo non resti tale, perché, pur tra mille difficoltà, è stata capace di amplificare le voci del teatro calabrese, un teatro in continuo fermento, che spinge per reclamare la propria presenza. Anime diverse che condividono uno stesso palcoscenico, portando in scena le declinazioni espressive di contesti geografici spesso isolati e periferici, che però, grazie al miracolo dell’arte e della drammaturgia, riescono a superare barriere e confini, e si spingono ben al di là della propria residenza, per come meritano. Una scommessa vinta sia per Scena Verticale, che si conferma osservatorio privilegiato che guarda con attenzione alle località, che per il Comune di Cosenza, che guarda giustamente alla cultura come volano per iniziative che trainino il capoluogo verso una maggiore visibilità a livello nazionale.
(Foto DI Angelo Maggio)
Idealista e visionario, ama l’arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia…