Le emozioni, vale la pena viverle. E restano uniche, pur se condivise con migliaia di persone. Ecco perchè io provo a raccontarvi quello che ho visto venerdì 4 settembre al PalaAlpitour di Torino, nella tappa dell’Innocence+Experience tour 2015 degli U2, sperando di farvi arrivare quanto più possibile di ciò che ho vissuto insieme a dodicimila altri cuori palpitanti grazie a una rockband eccelsa.
Ragazzi che anagraficamente hanno superato già il mezzo secolo di vita, ma con una grinta e una forza che li rende ventenni, come e più di ieri. Un pubblico variegato, che abbiamo visto formarsi ordinatamente sin dalle prime ore del pomeriggio, e composto da ragazzi di tutte le età, dal cinquantenne brizzolato colpito dallo spettacolo popolare che lo vedeva tra i protagonisti, al trentenne che con la chitarra d’ordinanza ricordava a tutti i brani che avremmo sentito da lì a qualche ora. Su tutti, aleggiava uno spirito di comune felicità, che dava forte il senso della festa, e che emanava di minuto in minuto il profumo dell’esaltante bellezza dell’esserci.
Lunga attesa fino alle 20.33, quando, mentre gli altoparlanti diffondono “People have the power” di Patti Smith, mr. Paul Howson entra, scortatissimo, nel PalaAlpiTour. Giubbotto nero di pelle, capelli biondo platino, pantaloni neri e occhiali ambrati, raccoglie l’ovazione del pubblico che si scatena tra grida e smartphone accesi. Bono guadagna del centro del palco e poi grida “Il più bel suono del mondo!” in un italiano quasi perfetto. E’ la password di accesso al live. Le note di “The miracle (of Joey Ramone)” si diffondono nell’aria, e si materializza (da dove saranno spuntati? Non me ne sono accorto…!) il resto della band. Il più serio è sempre lui, The Edge, il generalissimo, con la sua fidata chitarra che centellina note come ricami di grazia e potenza. Dal canto loro, Adam e Larry eseguono le proprie parti con rigore e maestria, ma sembrano più allegri e spensierati, infatti più volte li scorgeremo a scambiarsi occhiate complici.
Il secondo pezzo in scaletta è nientemeno che “The Electric Co.“, ripescata da “Boy” il disco di debutto della band, datato 1980. Praticamente una vita fa, se non fosse che l’arrangiamento del live, più elettrico e asciutto, la rinnova attualizzandola. Bono, perfettamente a suo agio con il mondo, sciorina un’altra frase in italiano che scatena l’entusiasmo del pubblico: “Sono passati cinque anni, ci siete mancati!” è il prologo all’esplosione di gioia della gente, che si scatena in un delirio di approvazione. “Vertigo” e “I will follow“, suonate con verve, riscaldano agevolmente la folla. E’ commozione pura, invece, quando il frontman degli U2 annuncia: “Questa canzone è per la bellissima Iris, mia madre…“. La voce matura del cantante, che, nell’iniziare con la prima strofa, si accarezza la fronte, sfida le lacrime e con loro il tempo, mostrando ancora una volta che la memoria e la tenerezza rendono gentile ogni dolore, anche il più grande.
“something in your eyes
took a thousand years to get here”
Dopo “Cedarwood road“, altro tuffo nella memoria e nel passato dell’adolescenza, tocca quindi a “Song for someone“, il singolo del momento, che il pubblico segue e rafforza nell’inciso, ormai entrato nel capiente carnet dei successi della band. Che, di seguito, va a proporre un classico tra i classici, introdotto dal tamburo di Larry, che guadagna l’attenzione generale sulla passerella centrale, accompagnato dalla chitarra di The Edge, prima di lasciarla a Bono: quel “I can’t believe the news today” è accolto da un’ovazione. Alle loro spalle, immagini che si susseguono come tracce scolpite nella memoria: e, nonostante qualche svarione vocale, “Sunday Bloody Sunday” continua a emozionare e a ricordarci, se mai qualcuno lo avesse dimenticato, l’impegno militante della band irlandese nel fare memoria della propria identità. Cultura di un popolo, fiero e mai domo, nonostante una guerra fratricida che lo ha piegato per decenni. Ecco, gli U2 sono questi, vis comunicativa all’ennesima potenza, che sa di poter contare su un solido impatto rock quando decide di virare all’entertainment, non disdegnando passaggi quasi psichedelici nelle incursioni iniziate nei primi anni ’90. Dopo “Raised by Wolves“, tocca quindi a “Until the End of the World“, “The Fly“, “Even Better Than the Real Thing“, “Mysterious Ways“, “Elevation“, pezzi che non risentono del tempo perché non hanno mai avuto il tempo di adaguarsi sulla polvere degli anni. L’impegno torna a far capolino con “Invisible” e “Ordinary Love“, e qui scatta una dedica sentita a Nelson Mandela – di cui viene citata la frase “Ogni cosa sembra sempre impossibile, fino a quando non viene fatta” – e, più in generale a tutti i profughi di guerra.
Proseguendo, “Every Breaking Wave” voce-piano è da brividi, così come “October“, la cui potenza evocativa non conosce età. Scorre fluida “Bullet the Blue Sky“, mentre “Zooropa” acquista un significato nuovo. Il pensiero è alla nuova Europa, a quella che accoglie i migranti in fuga, che apre le braccia a nuovi volti, a nuove lingue, creando quella contaminazione che è integrazione e crescita per ogni popolo. La voce di Bono si fa profetica:
And I have no compass
and I have no map
and I have no reasons
no reasons to get back…
e accoglie le prime note di “Where the Streets Have No Name“: mai brano avrebbe potuto essere più azzeccato, per il futuro che ci aspetta, oscuro e misterioso, ma inevitabilmente aperto alla speranza.
Da qui in poi è tripudio: “Pride (In the Name of Love)“, che viene dedicata al bimbo siriano Ayslan Kurdi, fotografato senza vita sulla spiaggia (Bono aggiunge la strofa ‘One boy washed up on an empty beach’), “With or Without You“, “City of Blinding Lights“, “Beautiful Day“, fino alla magia di “One” che si trasforma in un megakaraoke.
Concerto finito, si torna a casa, consapevoli di aver vissuto qualcosa che non scorderemo. L’uscita è ordinata, ma l’adrenalina è a mille. Una ragazza accanto a me piange, poi sorride, trova un bacio, è felice.