NoteVerticali.it_The_NationalNon è vero che non escono più grandi dischi, che la musica è in crisi. Ossia, c’è crisi, ma non vi è crisi in musica se gli artisti che la fanno – sotto una grande produzione, una medio-grande etichetta o autonomamente che sia – sono tanti e di altissimo livello. Il suono si è perfezionato grazie all’evoluzione della tecnologia, i più bravi che hanno imparato dai grandi maestri che hanno qualcosa di unico in grado di trascendere dalle influenze del passato, riescono ad imprimersi con uguale capacità nelle grazie degli ascoltatori più attenti e dal gusto più, se vogliamo, ricercato. La lista che propongo è di una selezione di dieci album che io ritengo essere capolavori utili per comprendere al meglio il valore evolutivo della musica contemporanea, per mezzo di dischi rappresentanti in pieno il progresso della tecnica e l’acume sonante della bellezza. Chi figura al numero uno non è necessariamente più grande degli altri, ma per il mio modo di vedere è più importante per lo sviluppo dei concetti che ho deciso di trattare secondo il seguente prospetto critico.

NoteVerticali.it_The_National_Boxer1. THE NATIONAL – Boxer (2007)
Se oggi si può parlare di indie-rock, lo si deve soprattutto a loro. È da “Alligator” che mettono a punto il loro suono, mentre è con “Boxer” che lo perfezionano, grazie ai loro avvolgenti arrangiamenti composti dal sussultare tonante della batteria suonata da Bryan Devendorf, in grado di scandire i tempi con forza ed estrema precisione, delle chitarre dei gemelli Aaron e Bryce Dessner, che generano concentrica energia attorno allo strascicante tono baritonale del frontman Matt Berninger, mentre il bassista e polistrumentista Scott Devendorf li accompagna quadrando con sicurezza il tutto. I The National sono come un boato meditativo che cresce progressivamente e sale scandendo il tempo come nessun altro, fino a raggiungere a volte gli scettri delle stelle. “High Violet” in particolare, e “Trouble Will Find Me” quello che devono esprimere della band lo esprimono ancora meglio a dire il vero – ricchi anche di vere e proprie hit sia da chamber-folk che da stadio – ma è con “Boxer” che la band mette a punto qualcosa di davvero unico ed è con il brano di apertura “Fake Empire” che forse si può riassumere la loro storica venuta. Non è facile trovare altri dischi in tutta storia della musica che siano anche solo di pari levatura a livello di arrangiamenti e pulizia dei suoni.

NoteVerticali.it_Other_lives_Rituals2. OTHER LIVES – Rituals (2015)
Un’opera d’arte, il secondo album degli Other Lives. Arioso, leggiadro, sinuoso, liberatorio, paradisiaco, meraviglioso, nonché splendido è il canto di Jesse Tabish. Il suono di tutti gli strumenti ha qualcosa di speciale e il modo come sono amalgamati gli uni con gli altri ha dell’incredibile. Un miracolo creativo non tangibile, eppure concreto. Ci si chiede dove arriveranno se già al terzo lavoro sono capaci di raggiungere tali vette. Una volta ascoltato per intero nella sua lunghezza (14 brani per 54 minuti) si ha come l’impressione di aver ascoltato una suite orchestrale pensata e diretta per toccare come nessun altro le corde dell’anima.

 

NoteVerticali.it_The_Antlers_Familiars3. THE ANTLERS – Familiars
Familiare come tutto ciò che si può toccare con mano. Un disco adatto a tutte le epoche, le stagioni, gli umori. Rilassante, disteso, lineare, a tratti teso, ma proiettato verso il cielo più limpido. Qualcuno ha detto che il disco suggerisce una prassi del tipo “fare pace con se stessi”, e probabilmente è così che ci si sente dopo averlo ascoltato e riascoltato per intero. Per certi versi è il fratello gemello di “Rituals”.

 

 

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4. RADIOHEAD – A Moon Shaped Pool
Raffinato ed elegante come pochi altri, il lavoro della maturità dei Radiohead è un finissimo, a tratti tortuoso, a momenti liscio, solstizio compositivo. Alcuni brani sono stati già registrati o suonati a partire dall’ormai lontano anno 2000. C’erano le basi da tempo per valorizzare tutte le schegge luminose infilate qua e là in tutti i loro dischi, frutto soprattutto del genio coeso di Thom Yorke e Jonny Greenwood e una su tutte, “Daydreaming” è un autentico capolavoro compositivo, un tuffo dentro la melanconia trafficata e a volte barbosa di certi ricordi.

 

NoteVerticali.it_Yo_La_Tengo_And_Then_Nothing_Turned5. YO LA TENGO – And Then Nothing Turned Itself Inside Out
Assolutamente completi e complicatamente definibili. Somigliano a tutti eppure a nessuno. Innumerevoli sono le influenze musicale della band, ma se si prova ad approcciare ad una meditazione sulle possibili similitudini con altri grandi si fa un po’ fatica. Folk, noise-pop, hard rock, blues, shoegaze, bossa nova, ambient, sono i generi preponderanti dei loro lavori, quasi tutti di altissimo livello. Sicuramente si sono vicendevolmente influenzati con i primi Eels, in particolare in quelli che sono i loro due capolavori assoluti:“I Can Hear the Heart Beating As One” e questo qui, il successivo.

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6. THE TWILIGHT SAD – Nobody Wants to Be Here and Nobody Wants to Go
Sono scozzesi e le loro melodie incantano, incastonate negli efficacissimi arrangiamenti, sorretti da una batterista portentoso di nome Mark Devine e soprattutto dal talento vocale di James Graham. Il folk – nelle ballad d’impatto spirituale – compie un ideale, sentito, potente, ipnotico sodalizio con il “noise”. Il rumore che pizzica le corde giuste, coinvolge, avvolge dentro un disco che rischia di diventare una vera e propria droga in chiunque si lasci avvincere dalle sue ataviche, romantiche atmosfere.

 

NoteVerticali.it_Bloc_party_Silent_alarm7. BLOC PARTY – Silent Alarm
Una forza della natura l’album d’esordio dei Bloc Party: adrenalinico, tonante, raggiante e potente come un condita apostrofe di natura underground. Peccato che dopo soli quattro album si sia sfaldata la formazione originale e che abbiano perso per strada due punti di forza, il batterista coreano Matt Tong e il bassista e tastierista Gordon Moakes. Altro disco di epocale importanza per comprendere la definizione attuale di indie-rock. I Bloc Party, capitanati dal frontman dall’aria clandestina Kele Okereke – inglese di origini nigeriane buttatosi poi sporadicamente e in maniera poco convincente in progetti solisti – si avvalgono di un’energia e un ritmo davvero trascinanti, evidenti in particolare proprio dall’esordio “Silent Alarm”, esaltante la poderosa forza intrisa nelle chitarre e nella batteria. Un’evoluzione certificata col terzo lavoro “Intimacy”, mentre “Four” dà il segnale che qualcosa si è inevitabilmente sgretolato: l’ultimo “Hymns” è la triste constatazione del loro declino irreversibile che li ha resi, cambiando pelle, irriconoscibili. “Silent Alarm” però ci basta e avanza per apprezzarli appieno.

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8. THE ARCADE FIRE – The Suburbs
L’album che respira meglio dell’intrigante schizofrenia creativa della band canadese capitanata dal genio di Win Butler, cantautore polistrumentista creatore di quell’art-rock e di quel baroque-pop inconfondibile. Ogni album è quasi una storia a sé ma “The Suburbs” ha una tale varietà di suggestioni e anche di belle canzoni allegramente melodiche, sprizzanti gioia e vacui dolori, passanti in tutta  fretta come meteore, da meritarsi lo scettro più affabile e consapevolmente maturo.

 

NoteVerticali.it_Bon_Iver9. BON IVER – Bon Iver, Bon Iver
Justin Vernon, in arte Bon Iver, registra il suo primo album isolato in una baita in montagna, ma qualcuno lo viene a sapere e decide di farlo diventare un grande, probabilmente il cantautore della nuova scena magic-folk più bravo ed evocativo (gli sono molto vicino Ray LaMontagne e Jacob Golden). Ha composto finora solo due album ma si dice che stia lavorando al terzo, il secondo invece, è proprio quello scelto, che personalmente ritengo essere un capolavoro. Sicuramente un grandissimo album per la ricercatezza del suono, per la magia del canto, la floridezza delle melodie, le atmosfere sospese e disordinatamente oniriche. Basta poco per innamorarsi delle sue canzoni, per restarne letteralmente incantati si potrebbe cominciare, ad esempio, dalla splendida “Holocene”.

NoteVerticali.it_Fire_She_sleeps_she_sleeps_sleeps10. FIRE – She Sleeps, She Sleeps
Il terzetto svedese fa il grande salto nell’olimpo del free-jazz che conta. L’assetto è di natura sperimentale ma i risultati vanno oltre tale accezione. Costruiscono una vera e propria architettura sonora sospesa e cinematica, coraggiosamente audace e liberamente inventiva, in alcuni frangenti persino eccitante. Alcune sequenze – tanto per usare un termine cinematografico (ci sta tutto) – hanno la stessa ammaliante portata di uno degli psichedelici capolavori del genere a cavallo fra anni ’60 e ’70. La fusione del jazz col rock ha aperto scenari inauditi all’epoca e gli alfieri di tale cambiamento furono certamente John Coltrane, Miles Davis, Ornette Coleman e Pharoah Sanders. Tutti punti di riferimento sicuro per i Fire, che sono in una ideale, gladiatoria via di mezzo. Album spartiacque? Una nuova frontiera del free-jazz si sta per aprire? Chissà. Intanto un primo punto fermo questi tre fenomeni l’hanno messo e a gennaio di quest’anno è purtroppo passato quasi inosservato.

Di Federico Mattioni

Federico Mattioni, rapportando la vita e i sensi al cinema, sta tentando di costruire un impero del piacere per mezzo della fruizione e della diffusione delle immagini, delle parole, dei concetti. Adora il Cinema, la Musica e la Letteratura, a tal punto da decidere d'immergervi dentro anche l'anima, canalizzando l'energia da trasformare in fuoco, lo stesso ardere che profonde da tempo immemore nelle ammalianti entità femminili.