Dove c’è tutto nessuno si aspetta di trovare niente”.
Con queste parole ho conosciuto Fabio Cinti. Non di persona, ma artisticamente.
In un contesto in cui è difficile farsi conoscere ed apprezzare. Aprì la data romana dell’Apriti sesamo tour di Franco Battiato, un tour bellissimo, in cui venivano recuperati pezzi degli anni ’70 sperimentali.
Aprire concerti non è mai facile. Il pubblico non aspetta te, neanche ti conosce, e non vede l’ora che te ne vai.
Invece io rimasi folgorato dalla bellezza delle canzoni che Cinti stava snocciolando a quel pubblico composto. Non le ricordo tutte, saranno state quattro, ma Questo strano abisso e La distrazione si. E ne rimasi subito innamorato.
Il giorno dopo mi informai su chi diavolo avesse aperto quel concerto, e ricostruii la carriera di Cinti fin lì avvenuta. E ho scoperto altre perle, tanto da non esitare a definirlo il cantautore più interessante, insieme a Dimartino, tra i nuovi nomi proposti dalla scena italiana.
Da qualche mese è uscito un suo album, in verità molto atteso, perché vede come produttore artistico Paolo Benvegnù, e la coppia è veramente interessante e stimolante.
L’album, che si intitola Forze elastiche, è allo stesso tempo una continuazione del discorso fin qui proposto e un suo allontanamento. Ai primi ascolti sono rimasto persino perplesso, perché sono andato alla ricerca del bagliore assoluto tipico, per esempio, di brani passati come L’amore qualunque o Canto alla durata (la mia preferita) o L’antidoto o quelli già citati prima. L’ascolto andava avanti ma io non trovavo questo bagliore.
Poi, però, ho capito che le gemme stavolta erano più nascoste, più incastonate in un discorso più onnicomprensivo. L’album, infatti, ha una sua unità, maggiore dei precedenti, e si sviluppa quasi come un concept (non nei testi, perché non ha un tema unico, ma nel fluire musicale si).
Lo sforzo di Cinti, pienamente realizzato, è quello di allontanarsi da una certa aura di nuovo Battiato o nuovo Morgan, che pure sarebbe facile affibbiargli, per essere più sè stesso. Anche se i debiti che deve a questi, come anche ai CSI (ma chi non deve debiti a questo gruppo?) ci sono, ed è bene ci siano.
In questo, credo che Benvegnù abbia inciso molto, nel tirare da Cinti ciò che è di Cinti e nel “disintossicarlo” dalle scorie dei padri, o fratelli, putativi.
E allora, riascoltando i brani non con l’ansia di trovare il nuovo Canto alla durata o la nuova La distrazione, ho scoperto le gemme anche in questo album. Ma ancora non ve le dico, perché voglio giocare a nascondino un po’ come ha giocato Cinti con l’ascoltatore (o, per lo meno, con me).
Prima voglio dirvi che Forze elastiche, proprio in virtù di questo gioco a nascondino, è un album apparentemente immediato, ha pur sempre rivoli pop, ma in realtà è soggetto a più strati e più letture (e necessita, per questo, di più ascolti per essere pienamente apprezzato e fatto proprio). Dopo il primo rivolo pop si stratificano altri rivoli, rock, elettronici, tipicamente cantautorali, fino a costituire un viaggio. Un viaggio verso dei luoghi, luoghi fisici, luoghi della mente e del pensiero, luoghi comuni, luoghi che sono e non sono, e che cambiano a seconda delle persone che ci sono e non ci sono (Io Milano di te, l’inizio folgorante).
Come in tutti i viaggi, allora, i panorami appaiono, scompaiono, riappaiono, tutto sembra casuale e disordinato, e invece c’è un momento in cui tutto poi assume una logica, un continuum. E quindi, come da un un ideale finestrino di un treno, ecco apparire le bellezze folgoranti di La gente che mente, L’isola, Come Bennet, Paure come cose. E intermezzi tra pacchetti di brani, come fossero gallerie dove riposare lo sguardo.
Nella cabina del treno ogni tanto entrano ospiti molto interessanti, come Nada, The Niro, Irene Ghiotto, Alessandro Grazian, Giovanna Famulari e altri ancora. Danno il loro contributo, scendono alla loro stazione, e noi si rimane lì, ad aspettare il prossimo ospite o la prossima visione. Fino ad arrivare alla cover di Biko, di Peter Gabriel, come a chiudere nel segno di una stazione d’arrivo prestigiosa e antica (come quella di Milano, da cui si è partiti).
Segnalo, oltre i brani già citati, la divertente Che cosa hai fatto per meritare questo?.
Attenzione, anche qui si gioca a nascondino, perché apparentemente è una canzone divertente, ma in realtà molto amara, nella sua invettiva contro la bontà populista a buon mercato, di cui l’indiscusso leader è “l’immenso sorriso del cantante Lorenzo Cherubini”.
Qui mi sono proprio messo a ridere, ascoltando la canzone, perché ho subito pensato a un mio articoletto, semipronto, su Jovanotti (mi piace ancora chiamarlo così perché secondo me non ha mai smesso di essere il Jovanotti di La mia moto, forse solo un po’ più ipocrita e costruito).
Volevo scrivere di quanto fosse ormai fuori binario quell’atteggiarsi giovanilistico dove tutto va bene, tutto è a posto, tutto è magico, tutto è sprint, è sempre sabato, e tutti sono buoni e tutti sono belli, e anche i cattivi possono diventare buoni, e andiamo tutti su sta moto, e dai, è una figata, perché una storia così non c’è mai stata, da Madre Teresa a Che Guevara, e guarda come mi diverto, e guarda che profumo di pane, e guarda che mi fido di te, e uniamo pure Apocalisse e Paperino, Hello Kitty e Tarantino, in una maionese impazzita che tanto basta che si balli.
Questo bandire la malinconia, se non a piccolissimi sprazzi. Questo bandire la tristezza. Che pure fano parte della vita. Questo, quindi, essere finti, perché della vita non si dice, né si vuole raccontare, tutto.
E volevo paragonarlo agli eterni post di Gianni Morandi su Facebook, anche lì, sorrisi in continuazione, tutto bello, tutto si compone, sempre in giro, sempre sole, sempre giovane. Mai un accenno di tristezza. Così che i giorni in cui ti senti triste, se ti paragoni a Jovanotti o a Morandi, ti senti pure uno sfigato fuori dal mondo, fuori registro, fuori da tutto.
Vabbè, volevo scrivere una cosa del genere, magari anche sotto forma di canzone (mi diletto a scrivere pure io), però poi ho notato che tutto questo è stato già scritto, con migliore sintesi, proprio da Fabio Cinti in due canzoni: Che cosa hai fatto…. – dove con godibile schiettezza se la prende con il nostro Cherubini – e Come Bennet, sui luoghi comuni sulla tristezza.
Io queste due canzoni le vedo unite. E sono bellissime. L’una un po’ incavolata, l’altra poetica, soprattutto in quel verso finale dove si dice che “quando entro in una basilica mi viene sempre voglia di cantare”.
Va bene, l’articolo, o la canone, non lo scrivo più.
Prima di dare spazio all’intervista, voglio solo aggiungere che Fabio Cinti, a mio parere, è troppo poco conosciuto, e invece è una delle penne più interessati di un panorama dove invece si fanno nomi molto ma molto meno talentuosi. E’ una vergogna e una pena, oltre che un vero peccato, che per radio non passi mai, mentre artisti che di artistico non hanno nulla passano 20 volte al giorno. Non è il “nuovo” nessuno, pur avendo impostato bene la lezione di Battiato, di Morgan, dei Bluvertigo e dei C.S.I., in ambito italiano, e, in ambito straniero, di Bowie innanzitutto. E’ Fabio Cinti e basta. Ma se qualcun si sente orfano degli artisti che ho appena citato, lo ascolti, e forse si sentirà un po’ più risollevato. C’è ancora speranza.

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Ciao Fabio, comincerei dal tuo ultimo lavoro, che mi pare andare su due direzioni apparentemente contrarie. Da un lato, staccarti dai lavori precedenti, e soprattutto da quella aura di “nuovo Battiato”, dall’altro lato, invece, proprio approfondire un discorso di “pop colto”, arricchito da più linguaggi, sia musicali che testuali. È una mia impressione o veramente era nelle tue intenzioni?

Ciao. Devo dirti che in generale quello che è venuto fuori è frutto di un’evoluzione nel tempo, sia della mia personalità che del modo di scrivere. Soprattutto, credo, anche dell’approccio verso l’esterno, vale a dire le aspettative, per esempio, o l’interesse verso il giudizio (che tanto va di moda). Quanto all’essere “colto”, mi sembra che esserlo, o essere un intellettuale, appaia oggi più come un difetto che come un pregio, ahimé. Ma anche in questo caso sono disinteressato a quello che va per la maggiore, sarebbe un suicidio per me se pensassi il contrario.

Un altro sforzo, che mi pare persino eroico, per quanto sia controcorrente in questa epoca di facili populismi, è smascherare alcuni luoghi comuni, come per esempio quello sulla tristezza (Come Bennett). Sarà che anche io sono spesso catalogato così, ma il fatto di essere filosofo, avere la barba e avere una espressione seria quasi automaticamente colloca la persona interessata nella sfera delle persone tristi. Poi, conosci queste persone e invece scopri che sono divertenti, allegre, di spirito. La risata facile e vuota non è allegria, ma stereotipo.

Non credo ci sia cosa più triste che l’isolamento delle persone in una discoteca con la musica a palla, spesso terribile. Il divertimento, l’allegria, la positività, sono direttamente proporzionali al grado di comprensione del mondo, a ciò che siamo in grado di percepire. Se non rido, per fare un esempio, alle battute che fa Carlo Conti o Panariello, non è perché sono triste, ma perché le cose che mi fanno ridere sono altre.

Collegato al discorso di prima è lo smascheramento dell’allegro facile per eccellenza, cioè Lorenzo Cherubini. Attaccarlo, anche minimamente, sembra destare scandalo, e chi lo fa viene catalogato o nel solito schema della persona triste o, peggio ancora, invidiosa. Magari semplicemente si dice che quella jovanottiana pare una allegria un po’ forzata, sbattuta in faccia (un po’ come i post sempre sereni e sorridenti di Gianni Morandi su Facebook), come tutto il mondo costruito nelle sue canzoni, dove tutto è magico, tutto è super e mega, ci si diverte sempre, ci si veste sempre ipercolorati, pure a 50 anni, un mondo dove tutto si tiene e dove non si coltiva mai con profondità qualche seme di amarezza e tristezza, che pure fanno parte della vita, ma quando ci sono non vengono mai vissute, se non in minima parte, ma negate, superate, perché tutto deve essere positivo e super. Sembrano stupidaggini, ma è un modo di approccio alla vita. La tua invettiva verso questo mondo – dove peraltro, naturalmente, tutti sono buoni e dalla parte della ragione – un mondo però che puzza di falsità da lontano, penso possa leggersi proprio in relazione al discorso sui luoghi comuni intorno alla tristezza. Ma non è che alla fine risulta più paradossalmente tragico il mondo finto e ipocrita delle canzoni di Cherubini rispetto al mondo delle canzoni “riflessive”, dove c’è più speranza perché c’è più vita vera?

Io lo chiamo populismo della canzone. Diffido dei testi che hanno dentro parole strategiche, che creano un’immaginario standard, un po’ come nei libri del catechismo dove l’immagine di Dio era sempre collegata a tramonti infuocati, con le nuvole trafitte da grandi raggi di luce. Amore, gioia, coraggio, felicità, bene, giusto, grande, piccola tenerezza, piccolo fiore… una mare di parole vuote che non vogliono dire niente e dove chiunque ci legge quello che vuole. È un modo come un altro di fare soldi, è un mestiere.

Sei laureato in filosofia. C’è un filosofo, o una scuola filosofica, che ha più influenzato la tua arte?

Sono stato molto influenzato prima dagli idealisti, e soprattutto da Kant, che in qualche modo lo ha fondato l’Idealismo, ma soprattutto dagli Analitici, dal cosiddetto Circolo di Vienna, Russel Wittgenstein, tra gli altri. Ritengo fermamente che la filosofia sia molto vicina alla scienza (se non vogliamo chiamarla a sua volta scienza).

Musicalmente parlando, sembra che in Benvegnù tu abbia trovato una vera e propria anima gemella. Cosa ti ha dato che prima non avevi? E cosa pensi di avere tu dato a lui?

I mesi in cui abbiamo vissuto assieme, durante i quali abbiamo realizzato l’album, e i giorni in cui abbia girato l’Italia per suonare sono stati memorabili per me, e spero anche per lui. C’è stato uno scambio molto potente, di idee, di riflessioni, di bellezze reciproche. Mai un momento di tensione, naturalmente, senza sforzo. La grande novità di questo album, che viene proprio da Paolo, è una nuova forma di coraggio: mi ha fatto abbandonare definitivamente ogni volontà di “piacere” – sono quello che sono, senza filtri o compromessi, senza sforzi di avvicinamento. Lui chiama questo comportamento “essere evidenti”.
Cosa ha imparato lui di me non so dirtelo, bisognerebbe chiedere a lui! So di essere stato rispettoso della sua presenza e accogliente senza riserve o stanchezza, e questo ho notato che lo ha sempre molto apprezzato.

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Quando parlo con i miei amici poco esperti di musica delle mie “recenti” scoperte musicali, faccio sempre, tra gli altri, il nome tuo e quello di Dimartino. Ma quasi nessuno vi conosce. Poi, gli faccio sentire qualche vostro brano, e tutti mi dicono “belle canzoni, ma perché non si sentono in giro”? E qui mi viene in mente il discorso sulla enorme falsità, creata da chi gestisce radio e televisioni, sui gusti del pubblico recepiti dai mass media. In realtà, le radio non recepiscono i gusti, ma li creano, li eterodirigono, in base a logiche clientelari e commerciali che nulla hanno a che fare con la musica e l’arte. È come se a un ristorante ci fosse sempre la stessa portata, magari con il solo nome cambiato. Giro le radio e sento sempre le stesse cose, un magma sonoro, ormai indistinto, con il solito Cherubini (tanto per fare un nome a caso, ma proprio a caso…) sparato 30 volte al giorno. Qualcuno ci vede persino complotti culturali dietro – non voler far crescere il pubblico perché un pubblico maturo e pensante non lo prendi in giro facilmente su nulla, neanche in politica. Io ci vedo tanta pigrizia, sciatteria, e il fatto che di musica si occupano persone che di musica sanno poco o nulla, ma vogliono solo far soldi velocemente e facilmente, come se vendessero telefonini o caldaie. Tu che ne pensi?

L’ignoranza, la pigrizia, il riconoscersi in banalità comuni, il sentirsi parte di un gruppo così come fanno spesso gli animali, sono forme molto potenti di comportamento all’interno dell’esistenza, difficilissime da modificare, da deviare verso l’emancipazione da esse. Non ci vedo nessun complotto, solo un narcisismo sfrenato, una volontà di apparire e di esserci anche senza sapere cosa dire, cosa fare, senza conoscere il proprio bagaglio (ammesso di averne uno). Viviamo l’era dell’immagine e dell’apparenza. I contenuti sono sempre più scarsi, e il risultato è che il linguaggio diventa sempre più istintivo e truce, il quale finisce per essere venduto, appunto, come le caldaie. Ci cascano gli artisti, e quelli che l’arte la promuovono e la vendono. Essere un po’ complicati, approfondire, fa perdere tempo, non conviene.

Hai un sogno artistico?

Se con sogno artistico intendi qualcosa di quasi irrealizzabile che mi piacerebbe però realizzare, no. Ma ho un po’ di progetti a cui sto lavorando con molto divertimento, alcuni in totale solitudine, altri con il mio gruppo di lavoro e che, spero, vedranno la luce presto.

Il genio della lampada ti dà un’opportunità. Fare resuscitare un artista deceduto per farci un disco insieme. Chi faresti resuscitare?

Beh, se proprio dobbiamo sognare, sogniamo alla grande: David Bowie.

Quale tua canzone, oggi, ti piace più cantare?

Delle mie? “Questo strano abisso”.

Sei uno a cui piace sperimentare e, soprattutto, mischiare più esperienze. In quale direzione pensi di svolgere i prossimi passi?

Sto andando in una direzione strana in realtà, sia musicale – riscoprendo alcune forme un po’ sepolte – sia lirica. Ci sono molte storie emozionanti che vengono ignorate a favore del sentimentalismo da strapazzo che tanto va di moda. La parola cuore mi dà la nausea, ultimamente.

Facebook ha bloccato il tuo profilo per qualche giorno per via della copertina del tuo disco. Una copertina artistica e per nulla sconcia. Che ne pensi se la prossima copertina prima la mandiamo al vaglio di Famiglia Cristiana?

In realtà non mi ha bloccato per qualche giorno, ma ha rimosso definitivamente il mio vecchio profilo e ho dovuto (per ragioni di promozione) aprirne uno nuovo. Non credo ci sia molto da dire a proposito. Posso solo aggiungere che è evidente che anche su Facebook vince la facciata, come nelle migliori famiglie: quattro cosce (artistiche) in copertina fanno scandalo, ma atteggiamenti nazisti, machisti, bullismo pesante, razzismo, classismo, e varie apologie criminali, purché non troppo corredate da immagini che violino “le regole della comunità” sono ben lontani dall’essere banditi.

 

LA GENTE CHE MENTE – Fabio Cinti

Di Vincenzo Greco

Docente Luiss, dirigente pubblico, musicista, cantautore, videonarratore. Insomma, raccontatore di cose ed emozioni, con parole, musica e immagini.

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