Comico, attore, cantante, scrittore e persino pittore. La versatilità ha accompagnato Giorgio Faletti nei 63 anni della sua vita breve ma molto intensa. Una vita custode di tante altre vite, dalla nascita ad Asti nel 1950 alla laurea in giurisprudenza, alle prime esperienze come cabarettista, che lo portarono già alla fine degli anni ’70 a respirare l’aria dei palcoscenici milanesi. Le foto di quegli anni lo ritraggono in compagnia di Massimo Boldi, Diego Abatantuono, Beppe Grillo. Nel decennio successivo passa anche lui per Drive in, la carovana targata Antonio Ricci che lo consacra tra i comici televisivi più apprezzati del momento. Vito Catozzo e Suor Daliso, personaggi che a me non dicevano nulla, ma che i miei coetanei apprezzavano e imitavano. Ma la sua verve era troppo unica per poter essere limitatamente confinata all’interno della sterile comicità televisiva. La sua vena malinconica, comune, è vero, a tutti i comici, finì per prendere il sopravvento sul resto, e i suoi testi iniziarono a circolare nell’ambiente dello spettacolo. Dopo qualche esperienza di superficie, e una laurea de facto come paroliere per aver dato una canzone a Mina (“Traditore” del 1991), una partecipazione a Sanremo lo consacra come artista a tutto tondo, capace, per una volta, di generare riflessioni e non risate. No, non sto parlando del Sanremo 1992, quando aveva convinto Milva a cantare con lui un suo brano che nessuno ricorda più (“Rumba di tango”), ma di quello di due anni dopo, il primo dell’era berlusconiana, caratterizzato dalla consacrazione di Laura Pausini e dalla graffiante ironia di Paolo Rossi ed Enzo Jannacci, che parlando dei soliti accordi, non si riferivano certo alla musica.

E’ un’Italia strana, quella del 1994, un paese atterrito da Tangentopoli, che ha spazzato via una repubblica e che vive di speranza, ancora ignaro di ciò che sarebbe arrivato con la piena del repulisti ‘made in Di Pietro’. Un paese, però, dove poco prima, nel giro di due mesi, si erano consumati gli atti più sanguinosi di una guerra combattuta sotto traccia, tra stato e antistato, tra legalità e terrore, tra ipocrisia e crudeltà. Le stragi palermitane di Capaci e di Via D’Amelio avevano gettato nello sconforto, ma la morte di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, e, con loro, dei poveri agenti di scorta, aveva contribuito, forse per la prima volta nel nostro paese, a consolidare una coscienza di massa che andava al di là della mera indignazione. La stessa coscienza, frutto di un comune sentire, che si respira in “Signor Tenente”, una delle canzoni fondamentali per capire quegli anni. Giorgio Faletti la scrisse e la presentò a Sanremo 1994, spiazzando tutto e tutti. Dando voce a quel carabiniere dal linguaggio bizzarro ma vero, profondamente vero, che si chiedeva come mai, in questo assurdo paese, si potesse far combaciare tanta violenza con l’inutilità della sicurezza per uno stato ipocrita che gettava la spugna, tutta l’Italia si scopre indignata e commossa al tempo stesso, e iniziò a considerare sul serio Giorgio Faletti. Che di quel Festival è il vincitore morale (arriva secondo) e che non ha ancora finito di stupire.

Nel 1995 ancora Sanremo, per presentare “L’assurdo mestiere”, una bellissima poesia laica a metà tra il serio e il faceto, tra le cui righe aleggiava il pensiero per sorella morte. A quel punto inizia a prenderci gusto, e i suoi testi fanno capolino in altre collaborazioni: su tutte, quella con Angelo Branduardi, a cui regala un intero disco, “Il dito e la luna”, del 1998, contenente una perla come “Il giocatore di biliardo”, e dopo aver scritto, sempre con lui, nel 1996, la bellissima “L’apprendista stregone”.
Dopo quella di cantante e paroliere, una nuova pelle aspetta il nostro Giorgio da Asti. “Io uccido”, del 2002, è un thriller che fa trattenere il fiato, zeppo di pagine, capitoli, citazioni e originalità. Sembra opera di maestri del genere di lingua Usa, ma è frutto della creatività di Faletti, e vende fino a quattro milioni di copie. Faletti diventa il caso letterario di quegli anni, perché si ripete con altri episodi di analogo spessore: “Niente di vero tranne gli occhi” è del 2004, “Fuori da un evidente destino”, dedicata agli indiani Navajos, del 2006, “Pochi inutili nascondigli” del 2006. Faletti vende in Italia, ma, grazie a uno stile che non è certo circoscritto al nostro paese, esporta i suoi libri anche all’estero, dall’Europa all’America, alla Cina e al Giappone. Alle prove letterarie si aggiungono altre esperienze cinematografiche, da “Notte prima degli esami” del 2006 (per la quale ottiene una nomination ai David), a “Baaria” del 2009 con Tornatore.
Ci lascia, in modo imprevisto, per un male incurabile, dopo aver portato in tour il suo spettacolo “Da quando a ora”, frutto dell’omonimo lavoro letterario autobiografico. Sappiamo anche che stava lavorando alla sceneggiatura di un film per Emanuele Crialese, “Il mostro”, storia di contractor bergamaschi di ritorno dall’Afghanistan. Ciao Giorgio, ci mancherai.

Ci metterò la mani e un genio da inventore
Ci metterò un dolore che so io
Ci metterò l’asfalto e il sogno di un attore
Che appoggia il manoscritto sul leggio
E tirerò il cemento come un muratore sa non è possibile
E tesserò una tela che sarà una vela grande e irrestringibile
E tergerò la fronte con la mano aperta per il gran sudore
E accorderò strumenti con il tocco esperto che ha un suonatore
Mi metterò seduto li a impagliare sedie per sedermi insieme
Mi stupirò di non averlo fatto mai e di averlo fatto bene
Perché c’è sangue, c’è fatica, c’è la vita
Anche se a volte ci si spezza il cuore
In questa assurda specie di mestiere
Benedetto tu sia per quel ciuffo di pelo nero
Che se l’hai fatto tu non è cosa brutta davvero
E per le storie eterne dei cartoni animati
Per quei pazzi o quei saggi che li han disegnati
E per quel che si mangia si respira e si beve
Per il disegno allegro della pipì sulla neve
E per le cose tonde e per le cose quadre
Per le carezze di mio padre e di mia madre
Per il futuro da leggere invano girando i tarocchi
Per le linee della mano diventate rughe sotto gli occhi
Perché tutto è sbagliato ed è così perfetto
Per ciò che vinco e ciò che perdo se scommetto
Tu sia benedetto
Benedetto tu sia
Per avermi fatto e messo al mondo
E per quel che ho detto prima ti perdono
Di non avermi fatto alto e biondo
Ma così stupido e così vero
Con l’eterna paura dell’uomo nero
E del viso bianco come calce
Di quella sua signora con la falce
Che come tutti prima o poi mi aspetto
E per cui altri ti han benedetto
Ma io no
Mi dispiace ma sono solo un uomo e non ne son capace
Ma c’è una cosa che ti chiedo ed è un favore
In cambio del bisogno del dottore
Mentre decidi ogni premio e ogni castigo
Mentre decidi se son buono o son cattivo
Fa che la morte mi trovi vivo
E se questo avverrà io ti prometto
Che mille e mille volte ti avrò benedetto
E se per caso non ci sei come non detto
E avrò davanti agli occhi la mia mano aperta per il troppo sole
E andrò verso la notte con il passo calmo del seminatore
Aspetterò seduto lì per dare un nome all’ombra di qualcuno
Che per un poco sembrerà sia tutti e non sarà nessuno
Perché c’è sangue, c’è fatica, c’è la vita
Anche se a volte ci si spezza il cuore
In questa assurda specie di mestiere
Che è l’amore…
(Giorgio Faletti, L’assurdo mestiere, 1995)

Di Luigi Caputo

Idealista e visionario, forse un pazzo, forse un poeta, ama l'arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia...

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