Morire su un palco a sessant’anni, dopo uno ‘scusate’ che interrompe l’ennesima esecuzione della sua prima canzone di successo. Sembra un film di Hollywood o un dramma teatrale, ma la realtà a volte è la rappresentazione più beffarda che ci sia, bizzarra e unica come solo la vita sa essere. Pino Mango se n’è andato così, su un palco in una sera di festa, nella sua terra, a Policoro. Lui, nato pochi chilometri più in là, a Lagonegro, fiero della sua Lucania e del suo essere meridionale senza il difetto di lamentarsene, aveva portato meritatamente la voce e l’arte che aveva innata fuori dai ristretti confini di provincia, al cospetto di platee popolari ma fedeli, riuscendo a metter d’accordo a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, persino i critici mai troppo benevoli per chi, passando da Sanremo, superava il decimo posto. Anno d’oro il 1986, quando portó al Festival ben quattro canzoni oltre alla sua, ‘Lei verrà’, uno degli inni della mia adolescenza, dedicata alla ragazzetta del momento, insieme a ‘La rosa dell’inverno’, scoperta per caso su una radio locale e registrata su una provvidenziale cassetta alla messa in onda successiva. Una scrittura omaggiata dai colleghi (Loredana Bertè, Loretta Goggi, Lucio Dalla, Mietta, Franco Battiato, Claudio Baglioni) e condivisa con il fratello Armando, sua ombra e suo mentore, che si accompagnava a una voce e a uno stile interpretativo unico. Cantore sensuale ed esteta della voce, arrivó a farmi ballare da solo – lo confesso – grazie a ‘Mediterraneo’, in una pausa pomeridiana dello studio matto e disperatissimo di quell’estate del 1992 tristemente nota per le stragi di mafia a Palermo. Quelle immagini di luce e di malinconia, di preghiere, di mare e di aranci, fotografie di scorci unici dove ‘tra gli ulivi l’acqua è scura, quasi blu’, ideate e condivise con Mogol, le ho sempre sentite mie, come un senso di appartenenza a una comune identità che mi fa essere più vicino a Tunisi, Creta o Madrid che non a Londra o Berlino.
Da lì in poi il tempo è passato, ho avuto modo anche di conoscerlo e di intervistarlo. Era il marzo 1998, e nel camerino del Teatro Rendano di Cosenza, prima di un concerto, il colloquio fu piacevole e divertente: all’epoca era tornato a collaborare con Mogol, e gli chiesi tra le altre cose se per caso avesse mai pensato di fare anche lui un viaggio a cavallo come quello fatto dal paroliere con Battisti nel 1970. Il suo sguardo stralunato fu eloquente come risposta.
In un panorama troppo inflazionato dalla ricerca del gossip a tutti i costi, non ha mai dato adito alle cronache rosa di occuparsi della sua vita privata, che è rimasta tale, condivisa con la compagna di una vita, Laura Valente: virtuoso esempio di coppia di spettacolo tradotta in famiglia lontana dai riflettori. Forse questo, unito a una probabile ritrosia caratteriale, lo ha danneggiato ‘commercialmente’, rendendolo però coerente con un percorso artistico limpido e chiaro.
Poeta e cantore con grazia delle cose semplici e dei sentimenti profondi, alla boa dei sessant’anni stava attraversando una fase artistica di contenimento, viaggiando nel periodo ‘coverizzante’ che per alcuni è quello dell’esplorazione, per altri quello della crisi creativa. Non ho mai creduto alla seconda ipotesi, e ho apprezzato l’umiltà con la quale si è accostato a successi di altri, reinterpretandoli con l’arte e la grazia che gli sono sempre stati propri. La sua arte non merita l’oblio, non lo avrà.
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Idealista e visionario, forse un pazzo, forse un poeta, ama l’arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia…