“E allora, sai che ti dico io? / Che proprio dove non c’è nulla / – nemmeno il dove – c’è Dio”, scriveva a pochi anni dalla morte Giorgio Caproni, e proprio questi versi, questa speranza disperata ci tornano alla mente nel guardare Parsifal, nuovo (capo)lavoro di Marco Filiberti, artista totale che torna nelle sale non con un film, ma con un’opera cinematografica: un’esperienza multi-artistica, che fonde teatro e cinema, musica e pittura, prosa e poesia per farsi altro e farsi unicum, lungo un percorso poli-sensoriale che è al tempo stesso allegorica rappresentazione dell’umanità di oggi e scavo infaticabile nell’umano di sempre.
Partendo dall’omonima opera di Richard Wagner, assunta e inglobata giusto il tempo per superarla e davvero sublimarla (al punto che ogni tentativo di sinossi risulterebbe fallace e riduttivo, archetipica, assoluta com’è la storia di questo Parsifal che tra peregrinazioni e epifanie, riconoscimenti e assoluzioni, sacrifici e redenzioni, ritrova finalmente se stesso solamente accettando di perdere e perdersi del tutto – nel tutto), il Parsifal di Filiberti c’immerge in un’atmosfera sospesa, liminare, insieme fine e principio di un mondo che ci è tanto famigliare quanto estraneo, dove ogni personaggio è testimone e figura di un’umanità residuale, ognuno scheggia, spigolo di specchio che riflette i volti e le storie, tutti i volti e tutte le storie di chi c’è stato, ci sarà stato e ci sarà. Merito di una regia e di una sceneggiatura volutamente stranianti, anti-mimetiche, infatti, una regia e una sceneggiatura che si sostanziano nello squarcio e nel frammento, nella citazione e nell’evocazione (innumerevoli i riferimenti a capolavori del cinema e della letteratura, soprattutto, da Dante a William Shakespeare, da Giuseppe Ungaretti a Thomas S. Eliot), lo spettatore, ogni spettatore, se accetta di abbandonarsi e liberarsi dalla miriade di sovrastrutture che ne condizionano e percezione e coscienza, non può che riconoscere se stesso, la propria vita e i propri morti, la propria memoria e la propria speranza, il proprio dolore e i propri perché – la propria personale ricerca, insomma, in questo viaggio che all’artificiosa autoreferenzialità dell’enigma sa preferire l’umanissima ineffabilità del mistero.
Viaggio e mistero che sembrerebbe aver intrapreso e accettato in primis Filiberti stesso, se quella possibilità di auto-riconoscimento da parte dello spettatore risulta evidente, a ben guardare, non solo grazie alle riuscitissime scelte tecnico-espressive, ma da un’autenticità, di nuovo, umana, che si respira e ci coinvolge sin dalla prima scena. Al di là, infatti, della lettera, della parola detta, dell’immagine mostrata, questo Parsifal ha la spietata e commovente statura dell’autobiografia, testimone com’è di un vissuto che non vuole né deve essere compreso, ma donato, quindi accolto. Prova ne sia, anche, la recitazione degli attori: impeccabili nel gestire ruoli-simbolo e un materiale linguistico tutt’altro che immediato, sembrano tutti, in un tempo, ciò che rappresentano e ciò che vivono, in un istintivo gioco di riflessi e meta-esperienze. Perforato fino all’abbattimento il muro che divide l’interprete dall’interpretato, allora, questi attori mettono in scena davvero anche se stessi, guidati, più che diretti, da Filiberti, ad incontrare l’uno il viaggio dell’altro, l’altro il dolore dell’uno, tutti l’esistenza di tutti, col risultato di consegnarci, involontaria mise-en-abyme, l’essenza ultima di quest’opera cinematografica, tutta disperatamente tesa a recuperare lo specifico più puro dell’umanità (l’autocoscienza, la condivisione, il rifiuto netto di ogni gerarchia) e la sua sacralità.
Sacralità, sì, eccolo forse il punto più delicato, più sofferto, della conquista umana e artistica che Filiberti in Parsifal mette in scena (stavamo per scrivere “in atto”, e non avremmo certo sbagliato, ché qui non c’è parola, non c’è immagine, non c’è costruzione che non sia performativa, attiva presa di coscienza e pronta, urgente militanza), allievo in questo proprio di quel Wagner che era convinto che spettasse all’arte il compito di salvare e autenticare il religioso. Una sacralità, quella del Parsifal, e una religione dell’uomo, che fa leva volentieri sulla simbologia più nota del cristianesimo, non per abbracciarlo in quanto dottrina, ma per, anzi, ridargli slancio, liberarlo dai fraintendimenti che hanno portato a spaccare via l’anima dal corpo: lo spirituale, qui, necessariamente si fonda su un principio di fisicità, di carnalità. Una fisicità, una carnalità, che Parsifal tematizza in tutte le sue sfumature, aprendo al casto e all’erotico, al tenero e al violento, al biologico e al mistico con stessa disponibilità e senza mai dimenticare, anzi per ribadire, la necessità di una sutura tra “anima” e “corpo”, inteso, quest’ultimo, come qualcosa di ben più profondo del mero organismo. Eccola, infatti, la centralità, in tante delle scene che scandiscono il viaggio di Parsifal, dell’elementale: è carne, sì, il corpo umano, è sangue, certo (e di sangue, qui, ne scorre parecchio, ma è, ancora una volta, sangue insieme vivido e simbolico, quasi Filiberti volesse rendere visive certe pagine dell’imprescindibile René Girard, tra desideri mimetici e sacrifici rituali), è organi e arti, sì, ma è anche e soprattutto acqua e vento, erba e grano, cielo e, specialmente, terra. È la terra, a farla da padrone, qui, in questo bilico tra catastrofe e palingenesi, è la terra col suo onnipervasivo esserci e sfuggirci, la sua concreta impenetrabilità che coincide con la nostra impossibilità di svincolarcene del tutto, non importa quanto alta e intensa sia la nostra brama di un volo, di un altrove.
Fedele sempre a un’estetica di forme e di colori che crede fermamente al valore universale, conoscitivo, salvifico del Bello (incarnato come scelta di vita e di sguardo, non, va da sé, vagheggiato come sterile idolo), Parsifal si mostra, così, talmente consapevole di quel limite di carne e di terra che ci costituisce umani da riuscire, alla fine, a disinnescare ogni dolore e ogni frustrazione. Assurgere all’essenza, al cosiddetto “spirito”, infatti, non significa negare la nostra materialità (l’esatto opposto, si badi, sembra dirci Filiberti, dell’invece disumanizzante materialismo), la nostra finitezza, il nostro fango o il nostro sporco (si noti l’insistenza della macchina da presa sugli elementi del corpo spesso considerati infimi), ma anzi accoglierli fin nel profondo, fino a non percepire più, cioè, il confine tra noi e il mondo, noi e l’altro.
Se proprio, allora, si volesse trovare una definizione a questo Parsifal che è anche vera liturgia (ma nel suo senso più originario: il greco antico, come la poesia di cui si sostanzia la sceneggiatura, risolve ogni possibile fraintendimento: “azione-per-il-popolo”) la si chiami pure opera religiosa, ma non si dimentichi che Filiberti ha capito che, per placare la sete di divino, fino all’ultima goccia bisogna bere dal bicchiere dell’umano.
PARSIFAL.
un’opera cinematografica di Marco Filiberti
con Matteo Munari, Marco Filiberti, Diletta Masetti,
Giovanni De Giorgi, Luca Tanganelli, Elena Crucianelli, Zoe Zolferino
soggetto e sceneggiatura Marco Filiberti
fotografia Mauro Toscano
scene Livia Borgognoni
costumi Daniele Gelsi
trucco e acconciature Gino Zamprioli, Rudy Sifari
drammaturgia musicale Stefano Sasso
musiche originali Paolo Marzocchi
coreografie Emanuele Burrafatto
aiuto regia Davide Cincis
regia Marco Filiberti
produzione Dedalus s.r.l.
produzione esecutiva A.L.B.A. s.r.l.
in collaborazione con Le vie del Teatro

Nasce a Roma nel 1993. Scrittore e critico teatrale, ha pubblicato i libri di poesia Pagine in corpo (Empiria, 2015) e L’uomo è verticale (Empiria, 2018) e il saggio critico Zero, nessuno e centomila. Lo specifico teatrale nell’arte di Renato Zero (Arcana, 2019). Dal 2017 collabora con il blog di R. di Giammarco Che teatro che fa su Repubblica.it.