«Poi siamo tutti la stessa persona»: si chiudeva così La signorina Gentilin dell’omonima cartoleria (2002), uno degli scritti più riusciti di Aldo Busi, e non possiamo non pensarci ora, di fronte a La signorina Else che Diletta Masetti, diretta da Claudio Jankowski, traduce e trasporta senza tradire dalla pagina di Schnitzler (Fräulein Else, 1924) alla scena del Teatro Basilica di Roma.

Non possiamo non pensarci ora non solo e non tanto perché quelle due signorine hanno più di qualcosa in comune, incastrate come sono entrambe in un tempo che è insieme attimo che sconvolge e eterno che sospende, commozione di una storia e condanna della Storia, ma anche e soprattutto perché – rara forza del vero teatro – col pretesto di un testo apparentemente specifico e peculiare, tutt’altro che paradigmatico e talmente connotato da correre il rischio di non riuscire a sfuggire alla propria anagrafe, Masetti e Jankowski ri-costruiscono e raccontano una vita che, senza perdere la singolarità della protagonista, la sua precisa fisionomia, sa assumere la statura e la consistenza del classico, arrivando agli occhi e alle orecchie dello spettatore come vivo esempio di umanità.

Senza trascurare, infatti, la precisissima connotazione storico-biografica di Else e della sua tragedia personale (quella di una giovanissima e bellissima viennese che per salvare il padre dai debiti si ritrova costretta, da lui e dalla famiglia tutta, a prostituirsi), la regia di Jankowski, invisibile ma puntuale, volta a valorizzare il dettaglio di uno sguardo, di un gesto, di un passo di danza interrotta, tra l’eterico e l’onirico ma mai davvero astratta e anzi attentissima a conservare la corporalità perfino di un fiato o di un silenzio, e l’interpretazione di Masetti, grazie alla quale quello sguardo, gesto, passo, fiato o silenzio significano e dicono né più né meno delle parole (Masetti che, senza tema di esagerazione, è da annoverare tra le migliori artiste della scena del nostro teatro contemporaneo: questa Else è solo una tra le moltissime cui ha dato corpo e voce, e un corpo e una voce che alla tecnica, al rigore tutto artigianale del fare-teatro, sanno sposare un’istintiva carica emotiva, un’umanissima spinta alla scoperta di sé nell’altro, dell’altro in sé, secondo un’urgenza artistica che è dunque anche etica – profondamente, e senza retoriche, umanistica), trasportano quell’esperienza in un altrove che è insieme il ‘qui-e-ora’ dell’accadimento scenico e il ‘sempre’ di ogni condizione.

Questa Signorina Else, insomma, che all’inizio ci sembra solo racconto, un racconto, diventa ben presto monito e presa di coscienza di un inesauribile fondo comune, di perdita o dolore, che riguarda tutti: femminile e maschile, amico e nemico, vittima e carnefice, cura e malattia, tragico pianto e comica risata (significativo, a tal proposito, che in più di un’occasione lo spettatore si ritrovi a sorridere di certe pose e atteggiamenti di Masetti/Else che ostentano un’allegria la cui origine è traumatica, una leggerezza la cui materia è piombo) si mostrano tutt’uno, categorie in ruoli reversibili al cui centro sta sempre, comunque, quell’irriducibile eco di frattura, di disillusione che scandisce, ci piaccia o no, ogni relazione: tra noi e gli altri, noi e il mondo – noi e noi.

LA SIGNORINA ELSE
di Arthur Schnitzler
traduzione e drammaturgia Diletta Masetti
con Diletta Masetti
regia Claudio Jankowski
scena “Mirroring Labirinto” 2021 di Michelangelo Pistoletto

 

 

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