Lo ricordo bene quel ritorno dal primo concerto di Bruce Springsteen al Flaminio di Roma. Stavamo passando su un ponte sopra il fiume Tevere, il nostro “The river”, e, scherzando, uno di noi disse che poteva anche buttarsi al fiume, tanto sarebbe morto felice.

Avevo appena assistito al primo dei tanti atti in cui può dividersi la mia frequentazione con Bruce Springsteen. Che, come quella di tanti suoi fans, è personale: non importa averlo conosciuto personalmente. Ma lui ci porta a una frequentazione che non può non essere, appunto, personale.

Ora lo stadio Flaminio di Roma è in completo abbandono, come la città che lo ospita del resto, e the river è sempre più sporco. I compagni con cui ero andato a quel concerto li ho persi di vista, ci sentivamo blood brothers in the stormy night, con un no surrender da urlare al mondo, e poi, come in tutte le cose, un po’ ci siamo arresi un po’ no.

Uno che non si è arreso per niente, invece, è proprio lui, Springsteen, che continua, in altre forme, a raccontare se stesso e l’America facendo emergere in modo ancor più cristallino la sua grande dote di narratore, dote che unifica tutte le altre e che tiene insieme la sua variegata produzione e modi di essere rocker.

E lo fa col consueto taglio cinematografico che ha dato cadenza a tante sue canzoni. Un andirivieni tra il l’intimo e il collettivo, con messe a fuoco e panoramiche che nel linguaggio delle canzoni è molto meno facile porre in essere, rispetto al più naturale linguaggio del cinema.

Uno dei tanti concerti tenutisi in serie a Broadway ora è su Netflix. E’ tuttavia improprio parlare di concerti, perché, in realtà, si tratta di una lunga narrazione in cui anche le poche (per essere Springsteen, pochissime) canzoni sono più parlate che cantate.

Springsteen ci aveva già abituato a lunghe introduzioni parlate dei suoi brani. Solo che qui lo fa in modo sistematico, avendo di mira, appunto, un racconto organico e coerente: il racconto di se stesso, e dell’America in cui ha vissuto e vive.

Il tono è colloquiale, aiutato da un bel senso dell’autoironia e del paradosso (“nato per correre, mi ritrovo a vivere a 10 minuti da dove sono nato”; “ho sempre cantato operai e fabbriche, eppure non ci sono mai entrato dentro”). E anche quando si affrontano macigni nella storia privata del Boss, come il rapporto con il padre, il tono rimane leggero. Con quel perdono finale – tipico delle sue storie – che fa riflettere molto per la disarmante semplicità con cui è scaturito (non svelo nulla, non sarebbe giusto).

Il miracolo di prendere l’attenzione dell’ascoltatore e mai perderla gli è riuscito anche stavolta. E proprio perché, si tratti di 4 ore tutte d’un fiato di concerto rock o di una confessione in un teatro spoglio di luci e musicisti, Springsteen si approccia con semplicità e mai come fosse ex cathedra.

Non c’è nulla di finto, nell’uomo Springsteen come nella sua poetica (è un termine che per lui si può utilizzare). Da quando ha iniziato a suonare, e a correre, lui ci racconta, in modo sempre coerente, un viaggio, che è insieme esteriore ed interiore, e la sua magia consiste nel saper fare dialogare queste polarità di uno stesso viaggio. E ora, alla fine della carriera, con quello che sembra un vero e proprio testamento spirituale, lui stesso ci avverte che le strade di cui ha tanto cantato sono anche le strade interiori, e che correre, viaggiare, andare da un posto all’altro del mondo – era questo uno dei capisaldi dell’american dream e dell’on the road – era solo un modo per conoscere meglio se stessi e le proprie strade interiori.

“Ma io non mica così voglia di conoscermi” ci scherza su, quando invece tutta la sua produzione è raccontare storie e strade, per vedersi dentro.

Ora, se tutto questo fosse solo una narrazione della persona Springsteen, sicuramente avrebbe presto annoiato. Ciò, negli anni, non è successo, e non è accaduto neanche a Broadway, perché il privato dell’artista non è la finalità ultima ma l’occasione di un racconto dall’afflato universale.

E’ per questo che ci sono momenti di vera e propria trance emotiva in questo spettacolo, che molti hanno provato. Qualcuno, addirittura, dosando la sua visione per assaporare meglio ogni sua parte, senza farsene subito travolgere. Perché Bruce parla di se stesso e dei suoi fantasmi, gli amici morti, i suoi genitori, il suo luogo d’origine, la sua storia, ma lo fa in modo che ognuno possa trasferire questo racconto nella propria intimità. Senti cantare My hometown e pensi a dove sei nato e a che effetto ti fa tornarci di tanto in tanto. Senti cantare My father’s house e pensi ai luoghi e ai misteri dell’infanzia. Senti cantare The rising, e pensi a cosa devi fare per risorgere ancora una volta. E’ così, con le sue canzoni. Ti viene naturale.

Questa è la grande capacità di Springsteen, che lo rende per certi aspetti unico: raccontare, con semplicità, cose universali, e sapere utilizzare ogni dettaglio per colpire l’emotività del suo ascoltatore. Che, a sua volta, si fa cullare, a ritmo di rock o di ballata sussurrata, nel lento incedere dei ricordi e delle sensazioni. Senza che questo sfoci, tuttavia, nella mera e sterile nostalgia. Perché lo sguardo è sempre rivolto in avanti: basti pensare al racconto della sua visita all’albero secolare della sua città, o ai riferimenti alla pagina bianca che ognuno ha davanti, in ogni momento della sua vita, e l’invito a non trascurarla mai. O a comportarsi come l’energica e positiva madre, nei momenti difficili: “scarpe da lavoro, e ballare”.

Lo spettacolo si chiude con un Padre nostro recitato con la stessa semplicità di sempre. Una chiusura inusuale. Che solo Springsteen può permettersi di fare, senza cadere nella ruffianeria. E lo può fare proprio perché, per più di due ore e mezza, ha evocato le cose umane sotto l’afflato divino. Una chiusura che non è solo bella e credibile, ma forse l’unica chiusura possibile. E forse mai, questa preghiera, recitata senza alcuna convinzione nelle chiese da persone che non praticano neanche una riga di quanto detto a memoria, è sembrata così bella e semplice, dopo questo tuffo fatto di umanità e di grandi sottili emozioni. Che, vi avverto, vi rimangono dentro per molto tempo. Insomma, non programmate nulla di impegnativo dopo l’ascolto e la visione del film, prendetevi e lasciatevi tempo e silenzio, perché quello che può avvenire, ad applausi terminati e a luci spente, dentro di voi, è un terzo tempo che fa parte dell’intero progetto e che, forse, è la cosa più importante. E’ la vostra, la nostra pagina bianca.

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