Tra le forme artistiche, la musica è quella che forse più di tutte è portata alla contaminazione, intesa come forma di arricchimento che come tale esalta l’ascolto e genera tutto fuorché confusione. La musica non ha barriere, perciò, non deve averne. Ecco perché siamo ben lieti di presentare a chi ci legge un disco in cui la contaminazione musicale emerge dalla prima all’ultima traccia. Si chiama “Dietro ad ogni cosa” ed è il titolo della prima fatica discografica di Franz, al secolo Francesco Riva, musicista talmente eclettico da avere nel suo curriculum una formazione classica e un’esperienza di batterista legato al punk-rock, ma non solo. Ha all’attivo la composizione di diverse colonne sonore, e un’esperienza di tutto rispetto come videomaker, oltre a una passione per la letteratura e i fumetti (Dino Buzzati e Dylan Dog su tutti), ma anche per i cartoni di Hayao Myazaki che contribuiscono in modo determinante al suo immaginario surreale.
Un universo alquanto complesso, quindi, il suo, non certo passato inosservato alla critica (ha conquistato un secondo posto all’edizione 2019 del Premio Fabrizio De Andrè) da cui traspare una curiosità certamente mai appagata, che nel disco di esordio si abbina a una costante ricerca delle parole, che confeziona grazie ad arrangiamenti che non lasciano certo nulla al caso. E non è davvero facile trovare tutti i giorni un lavoro di esordio così ben articolato, con tracce che meritano più di un ascolto, che si accompagnano a una visione cinematografica che si concretizza nei due videoclip finora al suo attivo, tratti dai due brani (“Settembre” e “L’America“) che aprono il disco.
Abbiamo avuto modo di colloquiare con Franz a margine dell’uscita del disco. Ecco la nostra intervista.
“Dietro ad ogni cosa” è un disco che merita più di un ascolto. Dietro una apparente leggerezza, ho trovato tanta profondità. Una dicotomia che definirei calviniana, perché si tratta di componenti apparentemente contrapposte, in realtà dialoganti. Ti rivedi in questo approccio?
Assolutamente sì, tanto che quando mi è stato chiesto di descrivere questo disco ho scritto così: “Dietro ad ogni cosa è un disco intenso, ma anche leggero. Perché dietro ogni cosa c’è anche il suo contrario. Dietro alle piccole miserie quotidiane si nasconde la bellezza, nei ricordi il nostro futuro, in una pozzanghera nel fango il riflesso dell’infinito. Dietro a ogni cosa c’è un mondo nascosto, immenso e vario come siamo noi esseri umani”. Direi quindi che sono decisamente d’accordo 🙂
Del disco ho apprezzato molto non solo i testi, ma anche gli arrangiamenti. Quel suono quasi antico che avvolge l’ascolto e ti trasporta in un universo lontano, che è altro da qui, e che indubbiamente contraddistingue il lavoro per originalità. Ti ha aiutato in questo la tua formazione classica?
Aver studiato Composizione in Conservatorio mi ha permesso di entrare in contatto con tanti strumenti dalle caratteristiche incredibili che mi hanno permesso di esprimere al massimo tutto quello che volevo raccontare. Non per niente nelle colonne sonore si usa spesso l’Orchestra: per raccontare tutte quelle storie con la loro complessità poter aver una palette così ampia di timbri e sfumature è necessario, oltre che bellissimo.
Tra le tracce del disco, “Settembre” è quella che già avevi avuto modo di far conoscere e che personalmente apprezzo sia per il brano in sé – ispirato al “Deserto dei tartari” di Buzzati – che per il video, un vero e proprio cortometraggio. L’ascolto del brano stimola diverse domande. Spesso ci si illude che l’attività che ci porta via più tempo nella giornata (tipicamente il lavoro) sia la cosa migliore che si potesse fare, mettendo inevitabilmente da parte tutto il resto. Ma un musicista, che si dedica anima e corpo alla propria passione-professione, non corre il rischio di rinunciare ad altro, ovvero vita privata, sentimenti, hobby?
È un equilibrio difficilissimo, ma non è diverso da quello che affronta chiunque, passata l’adolescenza, e si trova inevitabilmente davanti a delle scelte, che lo definiranno. Crescere per me è soprattutto questo: accettare il fatto di non poter essere tutte le versioni di te stesso che potevi diventare, e, una volta scelto il tuo percorso, trovare un equilibrio tra gli affetti, il lavoro, le passioni, e anche tutte quelle piccole cose che per quanto magari banali, ci fanno stare bene.
Anche il video de “L’America” è molto intenso. Mi rivedo molto nel ballo come metafora della vita di coppia e dell’intesa tra due innamorati. Come è nata l’idea di realizzarlo proprio così?
È venuto spontaneamente. L’America è una canzone d’amore, e da subito l’ho immaginata come una danza. Nel testo oltretutto la danza è proprio una metafora della relazione tra le due persone e musicalmente il pezzo è a sua volta un ballo vicino a un Tango, a una Milonga. In sostanza ne L’America, la danza diventa metafora della storia d’amore che diventa canzone, che diventa video che diventa danza a sua volta.
Sempre in “L’America” canti “E a furia di pensare che quella del buonsenso sia l’unica via giusta, raccontiamo i nostri sogni soltanto all’analista”. Raccontaci i tuoi sogni…
Ho voluto fare il musicista. Il fatto è che ci ho messo più di vent’anni a capire esattamente che tipo di musicista volessi essere. Ho iniziato come batterista, poi ho imparato a suonare la chitarra e a scrivere canzoni, ho messo in piedi i 7marzo, e nel frattempo sono entrato in Conservatorio, dove è obbligatorio lo studio del pianoforte. Nel frattempo ho iniziato a scrivere musica per le immagini: insegnavo batteria e intanto imparavo a usare il computer e studiavo da fonico per poter produrre i pezzi che mi venivano commissionati. Avvicinandomi al mondo del cinema e per esigenze di lavoro, ho imparato a fare il montatore prima, il colorist e il filmaker poi. Questo per dire che per arrivare alla “sintesi” che questo progetto rappresenta mi ci sono voluti circa vent’anni, e per dire anche che tutto quello che ho fatto, per quanto nel percorso sembrasse sconclusionato, è stato un pezzetto necessario. Adesso sono in uno stato “di grazia” un po’ Zen, che mi fa sentire soddisfatto e grato di ciò che ho e che sono: musicista, montatore, colorist, filmaker, marito, papà…
“Dietro a ogni cosa”, il brano che dà il titolo all’album, raccoglie sentimenti contrastanti sull’esistenza. La rabbia dei sedici anni è andata via, resta la voglia di continuare a cercare. Cosa pensi della religione?
Penso che sia una cosa molto personale, e la rispetto molto, nel momento in cui aiuta ciascuno di noi a trovare forza e risorse per affrontare la vita. Io personalmente non sono religioso, nel senso che non mi ritrovo in nessuna religione, non riesco a concepire la dimensione dogmatica e rituale delle varie religioni, soprattutto quando questo diventa motivo di divisione, o peggio, di odio. Ma ho spesso questo senso del “Sublime”, di vertigine di fronte a tante cose che ho visto e ho provato che mi porta a sentire qualcosa, se vogliamo, di “divino” dietro ad ogni cosa. Credo che ognuno abbia il diritto di dare a questo qualcosa il volto che desidera, e di trovare il modo migliore per rapportarcisi.
In “La canzone popolare” immagini di incontrare un interlocutore molto particolare, Orlando di Lasso, uno dei massimi compositori di musica polifonica del Rinascimento. Messer Orlando ti invita a lasciar perdere il contrappunto, perché tanto alla gente non interesserebbe. Ci ho visto un certo disincanto verso la vita e le sfide complicate che spesso ci propone. Lo stesso disincanto che leggo tra le righe di “Ricordi”, dove canti tra le altre cose “i ricordi sono briciole gli scherzi degli dei che si divertono e si giocano di noi”. E’ così?
In parte sì, nel senso che ne La canzone popolare c’è un certo disincanto un po’ ironico rispetto a un certo fare musica, ma la risposta a questo non è la rassegnazione: ad esempio, per quanto mi riguarda, ala fine ho fatto un disco “pop” pieno zeppo di contrappunto 🙂 Allo stesso modo la frase di Ricordi è un invito a guardare avanti, lasciando stare le comode e ammalianti lusinghe del passato.
“Il lungo addio”, che si pregia anch’esso di un arrangiamento sublime, con una magnifica coda orchestrale, è una dichiarazione d’amore verso l’imperfezione dell’essere umano. Sei d’accordo?
Grazie mille per il complimento. Amo molto il finale di questa canzone, perchè è un crescendo quasi trascendentale nel momento più “terreno” del pezzo. È come dici tu, una celebrazione della vita e dell’imperfezione umana.
“Dopo la tempesta torna il sereno”. La frase che ripeti nell’ultima traccia del disco, “Gli specchi”, sembra aprire alla speranza, e risuona in modo molto forte in questo momento assai particolare per il mondo. Sei ottimista? Pensi che l’umanità saprà reagire al coronavirus? E quali saranno secondo te le implicazioni per il mondo della musica e delle spettacolo in genere?
Non sono preoccupato di come sapremo reagire. Lo stiamo già facendo, e molto bene. Il problema sarà dopo: spero che, dopo questa fase di coraggio e solidarietà, non si ripiombi immediatamente nell’insofferenza e nella meschinità. Per quanto riguarda il mondo dello spettacolo la situazione è invece devastante: già prima l’unica fonte di sostentamento per i musicisti era suonare dal vivo e, salvo rari casi, a fatica. Ora che non c’è questa possibilità mi chiedo cosa possa succedere a tutto il settore.
NoteVerticali è un magazine culturale. Ci pare di capire che cinema e letteratura non ti siano estranee. Hai un film e un libro da consigliarci?
Beh per quanto riguarda il libro, sulla scia del “Deserto dei Tartari”, consiglio i “Sessanta racconti” di Buzzati. Una meraviglia. Per quanto riguarda i film recentemente ho apprezzato molto “Arrival”, per la capacità di stravolgere il cliché “arrivano gli alieni” e creare comunque un Blockbuster fantascientifico che parla essenzialmente di linguistica!

Idealista e visionario, forse un pazzo, forse un poeta, ama l’arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia…