Continua, senza cedere il passo a nostalgie e ripetizioni, il lungo e ininterrotto rapporto d’amore tra il più importante gruppo di musica italiana e il suo pubblico.

Era il 1980, io vivevo ancora a Vibo Valentia, prima di trasferirmi a Roma. C’era un negozio di dischi il cui titolare, che si chiamava Lelluccio, in barba ad ogni legge sul diritto d’autore, preparava per i suoi clienti musicassette a loro piacimento. Bastava dirgli cosa si voleva dentro e lui, sfilando i 45 e i 33 giri che aveva in vendita, immetteva questa playlist ante litteram in nastri che poi avrebbero girato all’infinito.

La mia musicassetta personale iniziava con Paolo Pa del Banco del Mutuo Soccorso. A 9 anni io avevo già fatto la mia scelta di campo musicale. Ed era bellissimo iniziare i miei pomeriggi della tarda infanzia, in cui mettevo su questa cassetta, sempre con la voce di Francesco Di Giacomo, le tastiere di Vittorio Nocenzi, la chitarra di Rodolfo Maltese e tutto il resto di quel gruppo che poi avrei conosciuto meglio, ricostruendo a ritroso la loro carriera fatta di un colpo folgorante dietro l’altro.

Se io e Lelluccio abbiamo commesso qualche reato, ormai sarà caduto in prescrizione, e quindi con tenerezza racconto questa storia allo stesso Vittorio Nocenzi che, dopo più di 40 anni dal fattaccio, incontro a Genzano, a casa sua, per parlare del nuovo disco del Banco: Orlando, le forme dell’amore.

Io vorrei tanto parlarvi del disco, bellissimo, e tranquilli, ve ne parlerò. Ma ancor più bello del disco – e ce ne vuole – è l’uomo Vittorio Nocenzi, che già dalle prime battute della nostra conversazione, tra una passeggiata e un caffè, mi sembra quasi di conoscere da una vita. Personalità di grandissimo spessore, cultura profonda, e mai esibita, curiosità infinita, vivacità e amore per la vita. Parliamo per almeno due ore di arte, storia, miti e di come questo paese stia andando sempre più alla deriva perché sempre più smemorato e dimentico delle proprie origini e della sua storia, quella gloriosa e quella meno gloriosa: “la storia è uno specchietto retrovisore, se non lo guardi rischi di andare a sbattere, e non capisci nemmeno perché”. 

Basta questa frase a tracciare le profondità di Vittorio Nocenzi, un intellettuale prestato alla musica, di quelli che ce ne sono pochissimi, e bisogna tenerceli stretti. E dar loro voce, in tempi di spaesamento come quelli che stiamo vivendo. Perché hanno sempre qualcosa di importante da dirci, fornendoci, come faceva Pasolini, una bussola per orientarci in questo sgretolamento in cui ci tocca vivere.

Se a questo poi si aggiunge una naturale simpatia e una carica fortissima di umanità, ecco tratteggiato uno degli incontri più belli che io abbia mai fatto. E non parlo solo dell’ambito musicale.

Io di questo incontro, che mi è veramente rimasto dentro, parlerei per ore, a partire dalla mia emozione, presto sfociata in commozione, nel vedere i nastri originali dei primi dischi degli anni o nell’essere accanto a un mostro del piano e delle tastiere mentre mi spiega la progressione armonica di uno dei nuovi brani. Ma lascio questa mia grande emozione alla sfera intima, anche perché non deve passare in secondo piano il motivo originante del nostro incontro, ovvero il disco, uscito da poche settimane, che vede il Banco del Mutuo Soccorso rimettersi sulla strada sonora (e anche quella reale, visto che c’è una tournée di cui parleremo tra breve).

Orlando. Le forme dell’amore riprende le mosse dagli inizi del gruppo. 1972, il Banco esordiva nel mondo dei long playing evocando proprio l’Orlando furioso. Ricordate quelle prime note di organo che andavano da sinistra a destra del nostro impianto stereo poi sorvolate dai primi versi? 

“Lascia lente le briglie del tuo ippogrifo, o Astolfo
E sfrena il tuo volo dove più ferve l’opera dell’uomo
Però non ingannarmi con false immagini
Ma lascia che io veda la verità e possa poi toccare il giusto”

E via con un tourbillon di suoni, parole, accelerate sonore, sognanti riflessioni, passaggi che schiudono orizzonti sempre nuovi. Tanti dischi in uno. Nasceva così il progressive italiano, di cui il Banco non è solo stato il capostipite, ma il più eccellente, creativo e originale rappresentante.
Che, poi, sul termine prog ci si dovrebbe intendere. Non essendo, almeno a mio parere – e in questo seguo proprio quanto sempre pensato da Vittorio – un genere a sé ma casomai una somma di generi. Il prog è un ampio contenitore che permette ai musicisti, quelli più completi e con visione a 360 gradi, di potersi esprimere a tutto tondo. Senza autolimitarsi in uno steccato, senza replicare eternamente se stessi e la stessa formuletta che, se pure all’inizio funziona, non è detto che debba poi ripetersi all’infinito. Ricordo quanto Battiato, che non a caso collaborò proprio con il Banco (Imago mundi), diceva a proposito del successo de La voce del padrone: “replicarlo mi avrebbe ingabbiato, è per questo che me ne sono uscito con un album completamente diverso come L’arca di Noè”.

Ma torniamo a Orlando. Del quale si può dire che prende le mosse dal primo disco del Banco, quello del famoso salvadanaio, non certo per creare un effetto nostalgia o per replicare formule già funzionate. 

Se c’è una cosa che questo nuovo disco non presenta, è proprio la nostalgia fine a sé stessa. Si tratta, infatti, di un’opera nuova, fresca, ben piantata nel 2022. Anche se è stata creata nell’arco di molti anni, e Vittorio ci aveva pensato insieme a Francesco Di Giacomo e Rodolfo Maltese prima che passassero, nel giro di poco tempo l’uno dall’altro, ad altra dimensione. In realtà, l’input viene fornito da Michelangelo Nocenzi, figlio di Vittorio, musicista e compositore anche lui, e degno erede artistico, che una bella mattina ricorda al padre che tra qualche tempo saranno 50 anni che quella pietra miliare della musica italiana, presentandosi con le forme di un salvadanaio, ha fatto la sua apparizione nella musica italiana e mondiale e nell’immaginazione, nei sogni, nella vita insomma di tantissimi ascoltatori. E che sarebbe bello se il Banco riprendesse le fila di quel discorso. Non una stanca e vuota celebrazione, né tanto meno una autocelebrazione (quanto di più distante è dallo spirito del Banco). Ma un riprendere un discorso, ampliandolo e adeguandolo ai tempi presenti.

Si pensa, quindi, di ricominciare, come in un gioco di rimandi temporali e letterari, proprio da lì, da quei primi versi, e seguire proprio le orme dell’Orlando di Ariosto, stavolta raccontando tutta la sua storia, in un concept album. E già, che bello dire queste due parole, in tempi di istantaneo usa e getta a cui si è autoridotto il mondo della discografia musicale, tutto ripiegato su singoli di nessun sapore ed identità da fare entrare in playlist senza una storia e senza mordente (altro che quelle che chiedevo a Lelluccio!).

Gli ottanta e passa minuti di Orlando, le forme dell’amore passano via leggeri, senza mai una caduta di tensione e di qualità, nulla è messo lì tanto per riempire. Anzi, mi dice Vittorio Nocenzi che ci sono stati almeno sei brani scartati, non perché meno belli di quelli sul disco ma perché forse lo avrebbero appesantito troppo nella lunghezza, brani che comunque vedranno presto la luce con una operazione di racconto che sarà presente anche in rete, come del resto è già avvenuto con questo disco, spiegato nota per nota e parola per parola nel sito ufficiale del Banco. Lo trovate qui, http://www.bancodelmutuosoccorso.it/2022-orlando-le-forme-dellamore/ ; vale la pena leggerlo, è veramente un percorso ben fatto e utile per un ascolto consapevole.

 

Proprio perché è stato già ampiamente raccontato dai suoi stessi creatori, non sto qui a descrivervi il disco ma, come di consueto faccio per le mie recensioni, vado per impressioni ed evocazioni personali.

La prima cosa che tengo a dire è che Orlando non cade in nessun equivoco, che pure era sotto l’angolo nel fare una operazione del genere. Innanzitutto, non è una mera replica di stilemi passati, non guarda indietro. O meglio, lo fa, ma per prendere le mosse da una ben precisa identità: per dire che Orlando è un disco del Banco del Mutuo Soccorso. Attenzione alle parole: Orlando è un disco del Banco. E non di quello che è rimasto del Banco.

Questo passaggio è fondamentale, perché mi consente di aprire una finestra su un discorso molto delicato. Sappiamo tutti come il gruppo, e la musica tutta, siano stati privati di figure fondamentali come la voce di Francesco Di Giacomo e la chitarra di Rodolfo Maltese. Insostituibili. E, proprio perché tali, ancora presenti. 

Si, perché se c’è un miracolo che in questo disco si realizza, è proprio quello di sentire comunque la loro presenza. Non faccio un discorso di paragone di persone e relativi strumenti – i chitarristi Filippo Marchegiani all’elettrica e Nicola di Già all’acustica sono bravissimi, come il cantante Tony D’Alessio, a cui tocca il compito forse più improbo, vista la straripante vitalità ed espressività che aveva il grande Di Giacomo. Sarebbe ingeneroso, fuorviante e improprio metterli a paragone con le pietre miliari. Però, ecco, ascoltando questo disco, non viene da pensare “eh, però manca Di Giacomo…eh, però manca Maltese”. E ve lo dice uno che ha amato moltissimo quella voce (oltre che quella penna) e quella chitarra.
Orlando. Le forme dell’amore, insomma, non è un disco del Banco meno quei due troppo presto andati via. Non è un disco di Vittorio Nocenzi e di suo figlio Michelangelo, adiuvati da un bel gruppo di musicisti.
No. Orlando è un disco del Banco del Mutuo Soccorso. Interamente, semplicemente, del Banco. E non solo perché il motore di tutto è Vittorio Nocenzi, fondatore del gruppo, ma perché lui ha saputo tenere in vita lo spirito totale del Banco, proponendo qualcosa che, probabilmente, non sarebbe stato molto dissimile se avesse avuto accanto i suoi consueti compagni di viaggio. 

È rimasta intatta l’anima del Banco, perché custodita, e ancora innaffiata, da Vittorio, che con piena consapevolezza e altrettanto piena onestà propone un disco che non ammicca e non replica. E che, come in un miracolo della dimensione ultraterrena, tiene ancora qui i suoi amici musicisti di una vita, che non a caso, in ogni concerto, lui presenta. E li presenta non in una sorta di “come se fossero ancora qui”. Lui li presenta perché sono veramente ancora qui. E la cosa, come accade in concerto, accade anche nel disco.
È in questo senso che posso dire, senza passare per folle, che non si sente la loro assenza. 

Il disco è un sinuoso e mai stanco attraversamento di tutte le forme e gli abiti che può indossare l’amore, da quello raccontato a quello negato a quello difeso e guerriero a quello inatteso a quello eterno. Ogni brano, una forma d’amore. E in mezzo tanta contemporaneità, a partire dallo scontro tra Occidente e Medio Oriente. Contemporaneità che non poteva non esserci, di cui ha goduto già la stessa opera dell’Ariosto. Il brano più contemporaneo, a mio parere, è proprio La pianura rossa, secondo singolo dell’album (il primo è stato Cadere o Volare), un elettrizzante quanto inquietante cavalcata tesa a raccontare la guerra, forma d’amore negato, tra gli Assetati e i Guardiani dell’Acqua. E di guerra dell’acqua (già ipotizzata qualche anno fa da Ivano Fossati, in un suo brano purtroppo minore, meno centrato di questo qui, appartenente alla sua fase, per così dire, decadente) si sentirà parlare, purtroppo, a breve. 

Basta questo brano a capire come il disco sia tutto un rimando tra passato, presente e futuro, più o meno immediato. Con sullo sfondo una costante emozionale, costituita proprio dall’amore.
Del resto, se c’è qualcosa che avvolge gli uomini tra loro, e li lega anche nei secoli, dando un tappeto costante ed eterno su cui si squadernano le varie epoche, sono proprio le emozioni. E l’amore è la prima e la più potente tra le emozioni, quella originaria, quella che ci fa nascere, ci fa vivere, e ci fa oltrepassare anche la morte, non facendoci cadere per sempre nel baratro della disperazione e dell’angoscia davanti la fine di una vita di una persona cara. 

Ho sempre pensato, e detto, che ci sono due cose molto difficili per un autore di canzoni: gli inni e le canzoni d’amore. Entrambi sono a forte rischio retorica. Ebbene, quello del Banco è un disco addirittura sulle forme dell’amore, senza che cada mai nella retorica. Impresa difficilissima. E pienamente riuscita.

Pensate a un brano come L’amore accade, forma dell’amore rifiutato, cantato dalla voce eterea di Viola Nocenzi. Una voce angelica che, appunto, da voce al personaggio di Angelica.
Anche in questo caso il rischio di retorica, quasi disneyana, era forte. La presenza di una voce diversa, una melodia avvolgente, la semplicità del brano. Tutti elementi che potevano deviare il brano verso atmosfere lontane dal Banco, più adatte a un musical o a un cartone natalizio.
Eppure Vittorio supera abilmente questo rischio ricorrendo a una voce contralto, ben sapendo che un soprano avrebbe dato al brano quel tocco disneyano che avrebbe stonato con il disco e con la storia musicale del Banco. E a una serie di passaggi armonici che danno aria alla struttura intera del brano, rendendolo uno dei fari del disco, forse quello più, allo stesso tempo, tenue ed abbagliante. Un brano da salvare in una propria personale playlist.

Ecco, nell’elenco di quello che non è Orlando – del resto, per dire cosa si è si può partire da cosa non si è, ce lo ha insegnato Eugenio Montale – ora possiamo aggiungere, al fatto che non è un disco nostalgico, che non è neppure un musical.

Di una cosa sono sicuro.
Gli ascoltatori più incalliti, e ben aditi a certe sonorità, apprezzeranno moltissimo un brano come Moon suite. Una suite divisa in tre momenti, che racconta il viaggio verso la Luna e ritorno sulla Terra, fatta di ostinati di basso e di sinth, e momenti più quieti ed eterei, che poi plana in un riavvolgersi di un nastro all’indietro che, guarda un po’, porta al tema conduttore di “In volo”. Il momento in cui più si salda quella linea ideale temporale di continuità tra quel disco storico e questo di oggi, senza che nulla sia corrotto: né la memoria di mezzo secolo né l’attualità odierna e presente. 

Ci sono persino brani per le orecchie meno abituate alle lunghe cavalcate prog. 

Parlo di Com’è successo che sei qui, forma di amore inatteso: una delicata ballata che esalta i suoni morbidi della chitarra di Filippo Marchegianni, seguita da una bellissima modulazione da parte della voce del cantante Tony D’Angelo che, come tutti i cantanti di heavy metal e hard rock, territorio musicale dal quale lui proviene, con le ballate ci sa proprio fare perché non le fa scadere nella retorica del troppo. Non inganni la melodia accattivante del brano e i suoi suoni morbidi. Se c’è da raccontare lo stupore dell’amore, va fatto proprio così, con dolcezza. 

C’è poi un brano molto particolare, che è un tango prog inedito, forse il primo mai scritto al mondo, parlo di Non mi spaventa più l’amore – forma dell’amore inevitabile – ispirato da un viaggio che Vittorio Nocenzi ha fatto in Argentina, in cui gli è capitato di ascoltare, con quel particolare stupore di cui sono capaci gli artisti, due musicisti di strada, un accordeon e un violino. È in quel momento che ha preso origine l’idea di scrivere un tango. Ed eccolo qui, mischiato come di consueto a tante altre suggestioni, nel pieno spirito prog: non un genere, anzi, una negazione di un solo genere, ma una apertura, quanto più ampia possibile, alla molteplicità e alla varietà dei generi. Unire più grammatiche fino a farne un unico linguaggio, universale.

E già, perché se c’è una cosa che rende questo disco un disco del Banco, per come lo conosciamo noi, e uno dei più belli della storia di questo glorioso gruppo, è proprio il saper unire. Non solo i generi musicali, ma anche le emozioni. 

Mi spiego. Un ascolto distratto, molto distratto invero, della produzione prog in generale potrebbe far pensare a queste sonorità come a qualcosa di cerebrale, ricco com’è di fughe, cavalcate, giochi tra accordi e armonie. E in qualche caso il prog si è veramente autoconfinato in una esibizione un po’ fine a se stessa, poco emozionale e molto autoreferenziale.

Ma il bello, forse l’unicità del Banco, è che il virtuosismo non è mai fine a sé stesso. È sempre al servizio di una narrazione e, quindi, di una emozione. Che nasce dai testi e da quel particolare impasto sonoro che da subito è stato il Banco-style. È proprio questo che ha reso, e rende tuttora, il Banco come un gruppo con un qualcosa in più, costituito proprio dal lato emozionale.

Il discorso non cambia, anzi viene ancor più sottolineato con “Orlando. Le forme dell’amore”. Che è un disco che emoziona, e molto. Abbandonatevi, tanto per fare un esempio tra tanti, alla parte finale di Le anime deserte del mondo – forma dell’amore del dominio – dove la voce di D’Angelo arretra sempre di più, immersa in reverberi sempre più forti, cantando “Solo nel mio tutto, io coltivo il nulla, e mi illudo che fiorisca, mentre il nulla è nulla!”. 

È quanto dice Atlante, disprezzando mondo e umanità. Ebbene, quel lento arretrare di versi terribili, mentre avanza il tipico suono del sintetizzatore di Vittorio Nocenzi, su cui moltissimi di noi hanno sognato, è uno dei momenti più forti del disco per chi è un fan storico del Banco. Non solo per il disco in sé, ma perché è come un dire, da parte di Vittorio, ai suoi ascoltatori: “guarda che io ci sono, sono sempre qui, con questo minimoog, e guarda come ti faccio venire in mente una caterva di ricordi e di emozioni, suonando anche solo qualche nota, alla giusta velocità”. 

A me da questa impressione.
Ed è bellissimo, perché è una forma di riconoscimento. Come un cenno di presenza e di saluto. Ed è quanto mi accade, tanto per fare un esempio, quando Bruce Springsteen prima di ogni brano da il 4 alla E Street Band, o quando Franco Battiato iniziava i suoi concerti con un brano di musica meditativa, mentre tutti ci aspettavamo l’inizio rock, o quando Nanni Moretti, anche se non lo fa più da tempo, metteva nei suoi film una scena in cui giocava a pallone. Segni di riconoscimento reciproco tra l’artista e il suo pubblico.

Non mi dilungo oltre, anche se vorrei raccontarvi ad uno ad uno tutti i brani, che sono tutti belli e meritevoli – veramente non ce n’è uno che non valga un attento ascolto – ma, ripeto, la descrizione è fatta molto meglio di come potrei farla io dal loro stesso autore nella sezione dedicata nel sito ufficiale del Banco. 

Tiro le fila di questa recensione partendo da dove ho iniziato, ovvero quello che non è questo disco: non è un disco nostalgico, non è una mera ripetizione di stilemi già sentiti, non è un musical.

Non è niente di tutto questo. 

È un disco del Banco del Mutuo Soccorso. Al suo completo, nonostante il tempo e i relativi accidenti, e i nonostante gli inganni della vita terrena. 

In quanto tale, è un disco pienamente prog. Ovvero completo. E toccante più generi e più corde della sensibilità di ogni ascoltatore. Un disco che emozionerà chi è disposto ancora a farsi emozionare. Che incoraggerà chi ancora, sentendo certe cavalcate e certi suoni, è disposto a farsi caricare da tutto questo. Facendosi trasportare, un po’ come Orlando, in un volo verso la Luna. Che renderà i suoi ascoltatori, come sempre alla fine di ogni ascolto di un disco del Banco, più ricchi e completi.
Ma non ancora sazi.
Perché del Banco si ha sempre un po’ fame. Una fame atavica, figlia della più generale fame di buona musica, purtroppo sempre più insoddisfatta, visto i tempi musicalmente scarni e mediocri che stiamo vivendo.
Forse è per questo che gli 80 minuti di Orlando ci sembrano volare, e ci sembrano pochi, almeno a noi, ascoltatori della musica vera e non di quella di plastica e fatta tutta di trucchetti digitali senza alcuna spina dorsale. In ogni caso, il Banco c’è ancora, e questa fame potrà essere soddisfatta anche dal vivo, in un concerto che più prog non si può. E che ovviamente vi racconterò su Note Verticali.

La tournée ha già avuto un suo significativo assaggio a Ferrara, e non poteva che partire da lì, perché è la città dove Ludovico Ariosto ha scritto proprio L’Orlando furioso. Le prossime date le trovate qui:  http://www.bancodelmutuosoccorso.it/date/ . Ma ne saranno progressivamente aggiunte altre, quindi tenete d’occhio con costanza questo link, per non perdere l’occasione di volare, tutti insieme, sulla Luna.

 

 

Di Vincenzo Greco

Docente Luiss, dirigente pubblico, musicista, cantautore, videonarratore. Insomma, raccontatore di cose ed emozioni, con parole, musica e immagini.