Il presente precario, alla ricerca perenne di una stabilità vista come un’illusione e inseguita come un miraggio. Sono questi i temi trattati con dissacrante ironia all’interno di BE NORMAL!, lo spettacolo che Teatro Sotterraneo sta portando in scena nei teatri italiani. Scritto da Daniele Villa, messo in scena da Sara Bonaventura e Claudio Cirri, il lavoro teatrale indaga, attraverso un linguaggio surreale e solo apparentemente leggero, su una generazione ‘perdente’, quale quella dei trentenni di oggi, disillusi e distanti dalla vita matura, solo perché i grandi hanno occupato tutti i posti disponibili e non hanno alcuna intenzione di liberarli. Abbiamo incontrato Daniele Villa alla vigilia della loro tappa di Cosenza, al Teatro Morelli, dove saranno venerdì 13 febbraio nell’ambito del Progetto More.
Come nasce la vostra idea di teatro, e perché proprio la scelta del nome ‘Teatro Sotterraneo’?
Non c’è un momento di nascita. Ci siamo formati come compagnia indipendente 10 anni fa esatti, abbiamo cominciato a lavorare insieme e i punti di contatto hanno disegnato una poetica di gruppo. Il tentativo di lavorare sull’immaginario collettivo riconoscendone la complessità (in una parola, l’approccio avant-pop), l’ironia, il montaggio di spettacoli che procedono per quadri, la rinuncia alla storia e al personaggio, fa tutto parte di una ricerca ancora fluida. Il nome è qualcosa di più semplice: abbiamo fondato il gruppo in un garage che stava al di sotto del livello dell’asfalto.
Il titolo dello spettacolo che portate in scena a Cosenza è “BE Normal! Daimon Project”. Che cos’è la normalità secondo voi oggi, e com’è cambiato il suo significato nel corso degli ultimi 30 anni?
Il lavoro parla di una normalità perduta, quella cui la nostra generazione ha rinunciato ritrovandosi in un orizzonte di precarietà e formazione continua che nega a molti la crescita reale e, con questa, il confronto col proprio daimon (vocazione, attitudine, scopo) fino a perdere la possibilità di fare esperienza diretta della propria realizzazione o del proprio il fallimento. La nostra è una generazione di superstiti, anche se non abbiamo conosciuto Catastrofi. Sia chiaro: non rimpiangiamo la ‘normalità’ di chi ci ha preceduto, registriamo solo di non averne una. Quindi direi che degli ultimi 30 anni quello che ci preme sottolineare è l’erosione di futuro – che è un fatto – di tutto il resto potremmo discutere per diverse decadi a venire.
Perché ‘Daimon Project’?
Il progetto è composto da più parti: lo spettacolo BE LEGEND! che è la ricostruzione docufictionale dell’infanzia di tre personaggi dell’immaginario (Amleto, Giovanna d’Arco e Adolf Hitler), lo spettacolo BE NORMAL! che è incentrato sulla sopravvivenza quotidiana degli anonimi, e infine BE READY! un laboratorio continuativo per adulti e adolescenti incentrato sul daimon con diversi esiti a pubblico. Il Daimon è l’immagine di sé che ognuno è chiamato a realizzare nella vita altrimenti, per dirla con Jung, “la vita è sprecata”. Diciamo che dopo 10 anni di lavoro e scavalcando il nostro 30esimo anno di età volevamo riflettere sulla condizione di chi segue le proprie urgenze anche se questo significa rinunciare a qualsiasi sicurezza: il daimon non si uccide, ma ti può uccidere (lentamente: con la frustrazione, velocemente: trascinandoti verso chissà quali destini possibili).
Nel vostro lavoro affrontate il tema del precariato, una condizione che investe la generazione dei trentenni di oggi, usando ironia e irriverenza. Perché l’uso di queste ‘armi non convenzionali’?
Perché il riso sovverte. Mentre altri strumenti rischiano la sottolineatura retorica. Quando ridiamo produciamo energia, digrigniamo i denti, ci elettrizziamo. Ridere è per noi un’arma di controffensiva, è liberatorio se non è banalmente consolatorio, ed è specificamente umano. Inoltre rappresenta un modo obliquo per riflettere: non perché ci hanno detto di riflettere, ma perché ridiamo e a un certo punto ci viene da domandarci perché mai stiamo ridendo….
La difficoltà dei giovani di oggi a ‘realizzarsi’ è legata alla difficoltà dei meno giovani di ‘mettersi da parte’. A un certo punto dello spettacolo, c’è una frase che dice: i figli devono succedere ai padri. E’ vero che questa cosa si avverte molto di più in Italia che all’estero? Perché secondo voi?
In Italia non c’è un vero e proprio conflitto generazionale, perché il potere è talmente asimmetrico che il conflitto neanche si pone. E questo si riflette su ogni aspetto: siamo un paese dal patrimonio immenso, ma fatichiamo a sostenere ricerca e innovazione. Siamo un paese colto, però qui la tradizione è largamente più presente della cultura contemporanea. Quella dei trentenni è una generazione che rischia di andare sprecata con la sua energia e inventiva, purtroppo è il sistema Italia che sembra strutturato così, mentre in altri paesi le responsabilità gravano sulle spalle di professionisti che da noi sarebbero ancora classificati come giovani talenti. I perché sono troppi e certo non li sappiamo tutti… quante battute abbiamo…?
Spesso si sente dire in giro che i giovani si trovano in questa situazione di precarietà perché non vogliono mettersi in gioco. Quanta verità c’è in questa frase?
È un’efficace assoluzione di massa ed è sfuocata, come ogni generalizzazione. I tanti ragazzi che si spostano all’estero perdendo legami e abitudini sono già un segno evidente di quanto siamo pronti a metterci in gioco. E’ solo che forse altrove le regole permettono di giocare…
Che rapporto avete con i vostri genitori?
Ottimi. Il conflitto non è familiare, tant’è che non è più un conflitto di valori. È più una questione di spazi, è un conflitto che attiene alla struttura dei rapporti generazionali nel sistema-paese: la privazione generazionale non è dentro le case ma ai margini delle istituzioni.
Portereste i vostri figli a vedere ‘BE Normal’?
Sì. Di solito il nostro è un lavoro trasversale, costruito per stratificazioni, possono guardarlo persino i bambini: magari non coglieranno ogni sfumatura, ma potranno “surfare” sui ritmi e sulle immagini e prendere ciò che più li colpisce.
Nel vostro teatro ha molta importanza la musica. Si va dalle atmosfere rarefatte di Brian Eno al metal dei System Of A Down. Perché questa varietà e cosa vuole esprimere?
La varietà è connaturata al nostro teatro, che è fatto di riferimenti diversi, dalla letturatura ai videogame, dal cinema alle graphic novels. Per noi il senso sta tanto in verticale (nella profondità del discorso che cerchiamo di costruire) quanto in orizzontale (nella sua capacità di muoversi fra più mondi di riferimento, intercettando un immaginario vasto, trasversale, diversificato). La musica non è mai una “didascalia emotiva”, è sempre parte del testo, per ciò che dice, per come la contestualizziamo, è un ulteriore strumento di esplorazione e interpretazione dello spettacolo.
Quali sono i vostri prossimi progetti in cantiere?
Di tutto. Performance interattive nei supermercati, laboratori con adolescenti in Toscana e a Londra, la messinscena di un testo classico (ma alla nostra maniera) e uno spettacolo per bambini. Il prossimo biennio sarà schizofrenico, e anche questo è BE NORMAL!
Idealista e visionario, ama l’arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia…