Al Festival ‘Teatro nel bicchiere’ di Scansano la drammaturgia di Ian Gualdani e Giacomo De Dominici ispirata alla poetessa russa

Com’è bestia, l’amore, scriveva Caproni, bevendo dalla miglior fonte di Pierre-Jean Jouve e René Char, e ci torna in mente proprio quell’immagine, con tanto di denti e d’agguato, di fronte al Poema della fine che Ian Gualdani e Giacomo Dominici (Opera del Rosso) drenano direttamente dall’opera omonima di Marina Cvetaeva e mettono in scena in occasione dell’XI edizione del festival “Teatro nel bicchiere” di Scansano (23 luglio-10 settembre). Un lavoro in costruzione, articolato in quattordici capitoli, di cui vengono presentate le vesti definitive dei primi tre e uno studio site specific del quarto, secondo una struttura che ricalca quella dell’opera di Cvetaeva.
Cvetaeva che è al tempo stesso la vera protagonista e la grande assente di questo spettacolo la cui natura è quella del percorso, chiaro ma frastagliato, netto ma franto, di una strada insieme lineare e vorticosa che non vuole, come pure si sarebbe portati a pensare, mettere-in-scena la poesia di Marina Cvetaeva, ma dare corpo e sostanza a ciò che quella poesia ha suggerito, evocato, prodotto in chi l’ha letta. Vissuta. Assunta. Non si tratta, cioè, qui, banalmente, di escogitare strategie sceniche per riprodurre, più o meno fedelmente, ciò che è il racconto in versi della poetessa russa, ma piuttosto ciò che è stato e di più: ciò che ha fatto in chi l’ha incontrato. Intento delicatissimo, come si intuisce, questo di tradurre in scena non la parola, ma dalla parola, dando priorità, con ferma consapevolezza, a una ricezione intesa come ri-creazione, che accetta volentieri di correre il rischio dell’arbitrio, di un eccesso di discrezionalità, per cogliere davvero nel segno. Perché Cvetaeva, insomma, esista sulla scena, perché la sua poesia si faccia, anzi, torni a essere carne vivida e visibile, c’è bisogno di disinnescare ogni mito o ambizione d’oggettività, ché tanto – Opera del Rosso lo sa bene – non c’è io che non sia comunque un noi, un proprio che non sia comunque altrui.
Ed è appunto a partire dallo scavo del proprio io, alla luce al tempo stesso clinica e sacrale delle parole di Cvetaeva, che Gualdani dirige i capitoli di questo lavoro, costruendo, in maniera più analogica che logica ma senza rinunciare a una certa razionalità di fondo, coadiuvato dalle intuizioni scenotecniche di Dominici secondo un’ottica che splende d’artigianato e non d’artefatto, una sequenza di quadri scenici ad alto tasso più figurale e allegorico che metaforico o simbolico, se ogni gesto, azione, suono non dimentica mai la propria natura anche storica e, lato sensu, narrativa, connesso com’è ai due protagonisti di questa che, anziché teatrodanza o performance, si potrebbe più giustamente definire installazione o esperienza scenica. ‘Lei’ (Gualdani) e ‘Lui’ (Dominici), infatti, coppia topica di tragici amanti, innamorati di quell’amore totale che disintegra barriere e distinizioni, gerarchie e definizioni (in primis quelle di “bene” e “male”, “piacere” e “dolore”, “volere” e “dovere”: morte e vita) esistono nel qui e ora di ogni singola scena pur sembrando piombati da un altrove atemporale, insieme corpi vivi ben connotati e spettri vuoti che spetta al pubblico rimpolpare, tesi come sono nella loro relazione a due che si offre come specificità e paradigma, testimonianza e – ancora una volta – testo da assumere e ricreare.
Natura bifida, questo amalgama tra organismo e figura, che bene viene veicolata dai due interpreti principali specialmente nei Capitoli I e II, sorta di suite a suo modo (anche) autoconclusiva che è il vero gioiello del progetto, tanto evidente è l’urgenza d’angoscia e di dolore, l’autenticità del grido d’aiuto e di disperazione che la sostanziano. A differenza, infatti, del III Capitolo, che pure colpisce, e non poco, per l’efficacia con cui s’impone l’ambiguità del sentimento, tra scene e effetti sonori che mescolano erotico e orrorifico, lirismo e kitsch, raffinato tableau vivant e tetra grunge art, e a differenza di quel che propone lo studio del Capitolo IV (la cui provvisorietà non impedisce di godere di un’efficace sostanza rituale, sacrificale, messa in atto e subita da due altre figure, interpretate col rigore plastico del performer da Davide Arena e Emanuele Marchetti), i Capitoli I e II si presentano come l’esempio migliore, autonomo e definito, di un teatro sinceramente di ricerca che non strizza l’occhio ad alcuna tendenza, che non cerca l’effetto, lucido e spietato nel mostrare senza dire, non assecondando mai lo spettatore.
Su una scena in cui campeggia la carcassa di un gabinetto, immersi in un buio che solo qui e là accetta di farsi illuminare, Lei/Gualdani e Lui/Dominici si relazionano da vittime e carnefici di un rapporto d’amore e di potere in accezioni tragicamente sinonimiche, mantenendo ognuno una specifica postura tecnico-fisica che convince per la capacità con cui tiene insieme forza estetica e impatto emotivo. Al liquido, viscerale, lancinante espressionismo di Gualdani, infatti, la cui fisicità non dimentica mai la propria carnalità, fa da contraltare il solido, massiccio eppure come diafano, aereo impressionismo di Dominici, abilissimo nel rarefare la propria statura di dominatore fino a imporla, per così dire, per sottrazione: come presenza, sì, ma che è presenza di un’assenza. E se a questo aggiungiamo una precisa partitura musicale che non è didascalia ma azione essa stessa, un ambiente sonoro, cioè, che concorre a costruire fisicamente la scena, e un disegno luci che riesce a fare del minimo e del niente un tutto che ci avvolge e poi ci inchioda, allora la potenza della messa in scena raggiunge il suo acme e questo dittico si fa esperienza definitiva: multidisciplinare, multisensoriale e profondamente umana.

Umana, sì, e di quell’umanità che non ci piace ricordare e che ci ostiniamo a misconoscere o addirittura rinnegare: quella che non si fa illusioni, che di fronte al baratro della fine, cosciente della maceria di cui siamo fatti tutti comunque, non cerca appigli né eufemismi, ma constata, esiste, resta, consapevole tanto delle menzogne del romantico quanto dell’(auto)inganno della parola. Che in questo Poema della fine tratto dalla poesia di Marina Cvetaeva proprio alla poesia sia affidato un ruolo marginale, che in questa storia d’amore e di parole d’amore la parola detta sia pressoché assente non è allora né un caso né un vezzo, ma la presa d’atto definitiva che l’amore, come tutto e come tutti, è davvero quando non c’è più.

POEMA DELLA FINE
Capitoli I-II-III e IV (primo studio)
da Marina Cvetaeva
scrittura di scena Giacomo Dominici • Ian Gualdani
regia Ian Gualdani
panorama sonoro Giacomo Vezzani
scenotecnica Giacomo Dominici
con Davide Arena • Giacomo Dominici • Ian Gualdani • Emanuele Marchetti
organizzazione Maria Lucia Bianchi
foto Giulio Melani
con il sostegno Movimenti Artistici Trasversali • Teatro nel Bicchiere Festival

 

 

 

 

Di Sacha Piersanti

Nasce a Roma nel 1993. Scrittore e critico teatrale, ha pubblicato i libri di poesia Pagine in corpo (Empiria, 2015) e L’uomo è verticale (Empiria, 2018) e il saggio critico Zero, nessuno e centomila. Lo specifico teatrale nell’arte di Renato Zero (Arcana, 2019). Dal 2017 collabora con il blog di R. di Giammarco Che teatro che fa su Repubblica.it.