Era l’estate 1978, quella di Paolo Rossi e del Mondiale di calcio in Argentina. Da un vecchio stereo 8, mentre il mar Jonio brillava selvaggio, sotto un tappeto di chitarre sudamericane, una voce senza tempo cantava così:

“Peperoncini rossi nel sole cocente,
polvere sul viso e sul cappello,
io e Maddalena all’Occidente
abbiamo aperto i nostri occhi oltre il cancello…”

Era l’avventura a Durango targata Massimo Bubola e Fabrizio De Andrè, o almeno a me bambino sembrava solo quella. Per molti giorni, insieme alle storie di Andrea, Teresa e Coda di Lupo, immaginai quella di Maddalena, e nella mente mi divertivo a ipotizzare come potesse essere questa città messicana che sembrava Samarcanda, dove salutare la fine del deserto ballando ’u fandango. Finalmente, in un freddo pomeriggio d’inverno, da una stazione radio arriva una voce americana incerta e afona:

“No llores mi querida
soon the desert will be gone…”
 

Era il mio primo contatto con mr. Robert Allen Zimmermann, che tutto il mondo già da decenni conosceva come Bob Dylan. Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata, è arrivata persino la candidatura, ormai sistematica, al Premio Nobel  per la Letteratura, e a pioggia le celebrazioni sulfuree ma mai ipocrite per un artista che ha fatto il giro del mondo dimostrando, a se stesso prima e agli altri poi, che il termine “coerenza” non è vuota cornice, e che le parole, per dirla alla Moretti, “sono importanti”.

Negli anni Sessanta i tempi stavano cambiando davvero, e grazie a Bob Dylan la musica si scoprì veicolo per far sentire la voce degli operai, della gente sfruttata, di chi era imprigionato a causa del colore della propria pelle.

E per tutte le Maddalene che piangevano sulle ingiustizie del mondo, c’erano sempre una chitarra e una voce senza tempo, quella rasoiata in piena faccia che condannando i “masters of war” tagliava le gambe ai compromessi, che non consolava ma rimetteva tutto in gioco, che pretendeva di entrare, bussando, alle porte di un Paradiso che avrebbe significato lavoro e dignità per tutti, nessuno escluso.

Nel suo “neverending tour” Dylan ha toccato persino Cosenza: era il 20 luglio 2006, quando uno Stadio S. Vito abbastanza pieno accolse il menestrello americano. Posso dire “Io c’ero”…

Una vita a far suonare una chitarra. Una vita a scrivere ballate che fanno pensare e a fare capolino nel rockabilly, nello swing, nel jazz, nel blues, gospel, e nel country-rock. Una vita a ispirare decine e decine di artisti, e a suonare davanti a tutti i potenti della terra (celebre l’esibizione del 1997 a Bologna davanti a Giovanni Paolo II). È questa la testimonianza diretta che quel ragazzo nato il 24 maggio 1941 a Duluth, Minnesota, continua a raccontare, “per sempre giovane”, con la voce di un cane rabbioso incartavetrato dal tempo ma mai domo – insignito di uno storico Nobel per la letteratura (2016) – che il vento del cambiamento continua a soffiare per tutte quelle domande che non trovano ancora risposta.

Di Luigi Caputo

Idealista e visionario, ama l'arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia...