Napoli è un universo a parte, un mondo nel mondo, dove trovano posto, insieme, il pianto e il riso, la tragedia e la commedia, il dolore e la gioia, la tristezza e l’amore. A Napoli, e al suo originalissimo miscuglio di emozioni, ha dato voce Toni Servillo. Lo spettacolo, “Toni Servillo legge Napoli”, una produzione Teatri Uniti, che ha già al suo attivo diverse date in Italia, è andato in scena al Teatro Auditorium dell’Università della Calabria, nel corso di una due giorni organizzata proprio dall’ateneo calabrese per rendere omaggio all’arte di Servillo. L’attore, vestito in abiti scuri ed essenziali, ha smesso per una volta i panni di alter ego cinematografico di Paolo Sorrentino per incarnare quelli, dolenti e scanzonati insieme, di Napoli, raccontandola attraverso le liriche più ispirate dei suoi figli migliori. L’esordio è stato tra i più classici, con “Lassammo fa a Dio”, meglio conosciuta come “’A mappata”, di Salvatore Di Giacomo, dove si immagina la discesa in terra di Dio in persona, che, accompagnato da San Pietro, decide di fare una passeggiata per le strade di Napoli, raccogliendo prima le voci dei ricchi, quindi i lamenti dei poveri, raccontandoli con “parole sceniche” che trovano la propria esaltazione in un finale tenerissimo. Con “Vincenzo De Pretore”, classico tra i classici dell’arte di Eduardo De Filippo, Servillo ha regalato risate e sorrisi, mettendo in scena le vicende tragicomiche di un mariuolo che aveva deciso di scegliere S. Giuseppe come proprio santo protettore.
Spazio quindi a Ferdinando Russo, con “A Madonna d’è mandarine” e “’E sfogliatelle”, due brevi schizzi poetici nei quali Servillo ha rimarcato il filo conduttore dello spettacolo, quel proiettarsi verso l’aldilà, in un dialogo – o anzi, come lo ha definito lo stesso Servillo, un “commercio” – dei vivi verso l’universo dei morti, che tanto appassiona e incuriosisce da sempre la cultura napoletana nella sua declinazione più schietta e popolare. La lettura è proseguita con “Fravecature”, di Raffaele Viviani, uno sguardo triste e senza speranza sulla morte di un giovane muratore, che ha portato l’attenzione sulle tante, troppe morti sul lavoro che ancora attanagliano il nostro mondo, Sud di un universo dove la giustizia sociale rappresenta ancora un triste miraggio. Dalla denuncia sociale si è passati quindi all’invettiva, con “’A sciaveca”, elogio della parolaccia e della bestemmia, una delle opere più rappresentative dell’arte di Mimmo Borrelli, esponente di spicco della poesia napoletana moderna. Servillo ha dato voce all’ingiuria esaltandola a toni di elegia tragica, dimostrando quanto la forza della parola sia tale da rovesciare convenzioni e regole, e invece agisca come onda distruttrice destinata a fare piazza pulita di logiche e inquadramenti. Il palco, scarno nella sua essenzialità, si è trasformato in un suk di quart’ordine, con “Litoranea”, di Enzo Moscato, dove la gutturalità dell’originale cadenza puteolana della composizione ha dato vita a scenari da apocalisse postmoderna. Servillo si è mosso come un camaleonte della parola, lontano anni luce dallo snobismo di Jep Gambardella ma anzi più vicino all’essenzialità di Tony Pagoda. “’O vecchio sotto o ponte” di Maurizio De Giovanni e “Sogno napoletano” di Giuseppe Montesano sono passati così, per poi dare spazio nuovamente a Mimmo Borrelli, e alla sua “Napule”, declamata con lo stile cantilenante di una nenia di periferia, che fa respirare le voci dai bassi e le grida di disperazione e di disagio che trovano ancora posto alle latitudini abbracciate dal Vesuvio, mentre non poteva mancare la chiusura affidata al capolavoro di Antonio De Curtis, principe ma soprattutto Totò, “’A livella”, nella cui recitazione Servillo è stato accompagnato dal pubblico, fino all’ovazione finale.
Bis dedicati a Eduardo (“Io vulesse camminà sotto terra”), e a Viviani, con “Primitivamente”, ritenuto giustamente da Servillo come la massima espressione della poesia napoletana di sempre. Chicche finali “’A casciaforte”, scritta da Alfonso Mangione e Nicola Valente nel 1928, che Servillo ha canticchiato mandando in sollucchero il pubblico, e una poesia breve di Michele Sovente dedicata al napoletano, “lingua smarrita”, ma viva più che mai.
Finale con il pubblico, giustamente, in piedi, ad applaudire il più grande attore italiano vivente.
Idealista e visionario, ama l’arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia…