Nell’era di Internet e della globalizzazione informatica, la comunicazione sembra essere vivace e fervida come non mai. Eppure la parola, che nei secoli aveva caratterizzato le evoluzioni dell’uomo accompagnandone la crescita sociale ed economica, attraversa un destino curioso e bizzarro al tempo stesso. Si scrive e si parla moltissimo, attraverso i media tradizionali e soprattutto grazie al web, ai social e alle chat, ma si parla malissimo. La grammatica è ridotta ai minimi termini e il linguaggio, figlio della volgarità del quotidiano, attraversa un’involuzione forse irreversibile. Ne è ben consapevole Ivano Dionigi, professore emerito di Lingua e Letteratura Latina presso l’Università di Bologna, di cui è stato rettore dal 2009 al 2015, che nel suo volume Benedetta parola – La rivincita del tempo, edito da Il Mulino analizza il percorso a cui oggi sono giunte quelle che i latini chiamavano verba. Ridotte a chiacchiera, barattate come merce qualunque, preda dell’ignoranza e dell’ipocrisia. Eppure in passato la parola era stata “icona dell’anima” (per citare il Basilio delle Epistole), sede del pensiero, segno distintivo dell’uomo e fondamento delle civiltà. Nelle pagine del libro, Dionigi elabora un percorso di rigore e formalismo che possa essere utile a ricomporre quel patto di catoniana memoria tra le cose e le parole: “Rem tene verba sequentur” (“Possiedi l’argomento, le parole seguiranno”). Un viaggio di “ecologia linguistica” che punti anzitutto a depurare il linguaggio dalla mistificazione della propria missione: comunicare, ma comunicare bene e non rendersi partecipi – e complici – di una Babele linguistica che contribuisca solo a generare entropia e nulla più. Ci viene in mente Il battito, canzone in cui Ivano Fossati provocatoriamente affermava: “Parole incomprensibili siano le benvenute, così affascinanti, così consolanti, non è nemmeno umiliante non capirle, anzi, così riposante…”.

Dionigi lo scrive chiaramente: la parola non può essere chiacchiericcio e rumore, ma deve esprimere concetti che abbiano la loro giusta collocazione. Nessuna ambiguità, nessuna confusione. La parola deve ergersi a elemento che distingua l’uomo dalle altre creature: e qui l’autore ci ricorda Aristotele (“L’uomo è il solo vivente che ha la parola”, dalla Politica), ma anche Jacques Lacan, che creò la forma linguistica parlètre a voler significare che “l’uomo è la parola e che la parola è l’uomo”. E persino, nei giorni della nostra storia più recente, don Lorenzo Milani, apostolo di quella giustizia sociale che trae origine dal Vangelo, il quale amava ripetere “chiamo uomo chi è padrone della sua lingua”. Di fatto, conclude Dionigi, “la parola custodisce e rivela l’assoluto che siamo”. Il percorso affrontato dall’autore appare coinvolgente per il lettore. Si scopre, o meglio si riscopre, la valenza della memoria, di quel palazzo che si fa esso stesso custode del sapere che torna e si esplica proprio attraverso l’arte della parola. Noi ricordiamo ed esponiamo ciò che ricordiamo, filtrandolo attraverso il nostro gusto e il nostro personale sentire. In questo, la parola è essa stessa veicolo di sapere. Giova allora ridare i giusti onori all’arte dell’oralità, che ha consentito la trasmissione dei testi antichi proprio grazie alla memoria, quel locus non locus agostiniano che i greci definivano Mnemosyne, la dea che in nove notti d’amore in unione con Giove aveva generato le Muse. Dionigi scrive che la memoria è fonte costitutiva dell’identità del genere umano e che si può soffocare la parola, ma non la memoria. Come dargli torto?

L’autore poi ricorda con quanta diffidenza Socrate giudicava la parola scritta (pharmakon, ambiguamente sia medicina che veleno) rispetto all’autenticità del discorso vivo. Lo stesso Seneca, nel comunicare con Lucilio via lettera, gli faceva presente che “la viva voce e la convivenza gioveranno più di un discorso scritto: è necessario che tu venga sul posto”. Eppure è proprio grazie agli scritti che le parole sono state tramandate fino a noi. Basti pensare ai Vangeli, i libri per eccellenza su cui si fonda la testimonianza della vita di Cristo e del suo messaggio di amore universale. Persino nell’immaterialità della tecnologia e dell’informatica, il libro resiste. Non come orpello, non come carcassa, ma come traccia per riportarci alla parola viva.
Benedetta parola è un viaggio che ci guida a casa, all’essenza della nostra civiltà. Con attenzione e cura, ma anche con la giusta severità (da sottoscrivere l’accusa che l’autore fa verso i governanti rei di ignorare nel PNRR le discipline umanistiche in favore di quelle tecnologiche), Ivano Dionigi ci accompagna a riscoprire un dono ineguagliabile e bistrattato. Quella parola che ci offre la capacità di mostrarci e di interagire, ma che ci riveste anche di una responsabilità da non dimenticare: farci ognuno strumento di apertura all’altro, per renderci ognuno testimone di quella Pentecoste laica che ci consenta di capirci restando ciascuno fedele alla propria lingua. Seguendo l’unica via possibile, quella del dialogo inteso non come cedimento, ma come confronto in cui poter incrociare e attraversare (dia, attraverso) la parola (lògos) e la ragione dell’altro.

Ivano Dionigi, BENEDETTA PAROLA – La rivincita del tempo, Il Mulino, 2022.

Di Luigi Caputo

Idealista e visionario, ama l'arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia...