NoteVerticali.it_Karawan_Festival_2015_pubblicoPer il quarto anno consecutivo, Roma ha ospitato Karawan Fest – Il sorriso del cinema migrante, una manifestazione unica nel suo genere, in cui la commedia diventa luogo d’incontro di culture diverse. L’iniziativa, tenutasi nell’ex aula consiliare del Municipio nel quartiere multietnico di Tor Pignattara, ha visto alternarsi proiezioni di cortometraggi e lungometraggi con spazi dedicati a musica e fotografia. A margine dell’evento abbiamo incontrato Claudio Gnessi, direttore artistico con Claudia Ottoni (che avevamo intervistato in occasione dell’edizione 2014). 

NoteVerticali.it_Karawan_Festival_2015_locandinaIl Karawan Fest non si ferma. Integrazione e cinema come spazio condiviso è sempre stato il vostro motto. Cosa è cambiato in questa ultima edizione rispetto alle edizioni passate?
Non è cambiato molto, se non la consapevolezza di aver creato qualcosa di unico. Siamo l’unico festival che tratta i temi dell’incontro, della convivenza e dello scontro fra culture in modo divertente e divertito, senza auto-compiaciute drammatizzazioni di temi. Allo stesso tempo siamo l’unico festival che svolge una funzione di rigenerazione urbana in quanto sottraiamo spazi al degrado e all’oblìo attraverso l’arte e la cultura. La formula è questa e la rivendichiamo come nostra e come originale. Non siamo il classico festival. Siamo un happening cinematografico e culturale.

Come è stato accolto il festival dagli abitanti del quartiere di Tor Pignattara?
Da tempo gli abitanti lo accolgono positivamente. Centinaia di presenze, attesa, partecipazione diretta (dei commercianti, dei cittadini, degli operatori culturali di zona e delle associazioni). Tutti aiutano in qualche modo facendolo diventare una sorta di festa del quartiere.

Quest’anno il focus specifico è stato su India e Bangladesh. Come è avvenuta la scelta delle pellicole selezionate e a chi si rivolgono?
La scelta è stata molto semplice. La nostra idea è quella di lavorare per contrasto. Prendiamo un Paese e cerchiamo di trovare un tema cardine (quest’anno era la spinta della nuove generazioni al cambiamento) e cerchiamo commedie di quelle cinematografie che ne parlano. Ci rivolgiamo principalmente alle comunità indiane e bengalesi presenti sul territorio invitandole a vedersi il film con noi, a ridere con noi, a fare comunità con noi. Poi ci rivolgiamo agli italiani, invitandoli a denudarsi dei pregiudizi che affogano anche la mente più aperta e a scoprirsi nudi di fronte alla forza dirompente del riso, dell’ironia, del grottesco.

Claudio Gnessi e Carla Ottoni
Claudio Gnessi e Carla Ottoni

Oltre al cinema, il festival concede un spazio alla fotografia e alla musica. Cosa può anticiparci su questi eventi in programma?
Abbiamo presentato la fotostoria di Marcello Scopelliti, Sonny. Una straordinaria narrazione per immagini del viaggio di questo indiano che dal Punjab è approdato all’Agro Pontino. Sofferenza, scoperte, emozioni, riprese con la maestria unica di Marcello. Poi c’è stato il concerto dei Moon Stars Studio, un trio di ragazzi italiani di origine bengalese che con la loro semplice essere mettono in crisi qualsiasi discorso paludato e baronale su seconde generazioni, immigrazione, integrazione e convivenza. Sono il futuro che avanza. Una sorta di italianità 4.0 che sprovincializza un paese perso dietro ai miti del passato e con una fottuta paura del futuro.

Il vostro progetto punta anche al recupero di spazi per il cinema in un quartiere difficile in questo senso. Come è cambiato negli anni il rapporto con le istituzioni?
Purtroppo non è andato mai oltre le pacche sulle spalle. Abbiamo sempre lavorato in perfetta solitudine con l’aiuto del pubblico, dei commercianti, del quartiere. Diciamo che siamo stanchi di fare da foglia di fico alla loro assenza. È ora si prendano delle responsabilità serie.

Scena tratta dal corto d'animazione  'Garbanzos', presentato al Karawan Fest 2015
Scena tratta dal corto d’animazione ‘Garbanzos’, presentato al Karawan Fest 2015

Nell’ambito dei festival la commedia non riceve mai il giusto spazio. La vostra scelta è dunque in controtendenza eppure rivoluzionaria. Dove risiede l’importanza del genere?
La commedia è uno strumento straordinario. Il riso è sempre distanziamento dall’oggetto del “ridicolo”. Se questa cosa viene fatta da chi è oggetto di pregiudizio sul pregiudizio stesso si crea un cortocircuito di senso rivoluzionario: attraverso il sorriso le comunità vessate dal pregiudizio lo relegano a oggetto di derisione e, per effetto riflessivo, chi derideva diventa deriso. Vittima del proprio pregiudizio. Questo succede a Karawan che è una sistematica messa alla berlina delle ipocrisie di un occidente sempre pronto a piangere i morti, additare gli invasori e totalmente incapace di mettersi in discussione.

Ci auguriamo che un festival come il Karawan possa continuare a crescere di anno in anno. Ci sono già progetti futuri in circolo?
Cominceremo a lavorare per qualcosa ma solo quando avremo la percezione che a livello istituzionale questa esperienza sia assunta come perno di un’offerta culturale nuova, inclusiva, partecipata, meticcia. Comunque progetti ce ne sono e, come sempre, controtendenza.

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