Non è abituale poter assistere a una rappresentazione di passione civile che lega manifestazioni culturali tra loro distinte e apparentemente distanti. Abbiamo avuto il piacere di seguirla grazie allo spettacolo andato in scena al Teatro Auditorium dell’Università della Calabria. L’evento, tenutosi a conclusione dell’iniziativa #ioleggoperchè, che nella giornata dedicata alla lettura ha visto in primo piano l’ateneo rendese, ha visto al centro della scena Moni Ovadia. Personaggio brillante, testimone di una carriera di coerenza e di impegno, Ovadia ha scelto di prestare la voce a parole scomode e taglienti, di una lucidità integra e viva, nonostante siano state pronunciate ormai più di quarant’anni fa. Sono gli “Scritti corsari“, raccolta di articoli che Pier Paolo Pasolini pubblicò tra il 1973 e il 1975 sulle pagine del Corriere della Sera, di Tempo Illustrato, Il Mondo, Nuova generazione e Paese sera. Interventi di rottura, con prese di posizione solitarie e troppo spesso criticate per la propria veemenza, ma che oggi suonano quantomai profetiche. Una lettura non solitaria, ma accompagnata dal tango, quella musica corsara che nasce negli angiporti, nei bassifondi, un ballo all’inizio considerato sconcio, proibito, di cui il potere e la borghesia si sono appropriati solo in seguito. “Pasolini si accompagna bene col tango” – ha spiegato Ovadia agli spettatori all’inizio della rappresentazione – ” perché lui affrontò tutte le conseguenze del suo essere corsaro, diverso. Pasolini è stato la coscienza più lucida, coraggiosa, spregiudicata, geniale e scomoda che l’Italia abbia avuto nel secondo dopoguerra” chiude Ovadia, prima di introdurre il primo brano della serata, un tango del 1929 le cui note risuonano in teatro grazie all’arte dei maestri Maurizio Dehò al violino e Nadio Marenco alla fisarmonica.
Spazio poi alle parole di Pasolini, a partire dall’articolo apparso sul Corriere del 24 giugno 1974, con il titolo “Il potere senza volto” e pubblicato come “Il vero fascismo e quindi il vero antifascismo“. Le parole pasoliniane danno quindi corpo a un’analisi lucida che evidenzia quanto un nuovo potere si sia diffuso attraverso l’omologazione, e quanto si percepisca una mutazione antropologica che sta portando il nostro paese verso un piattume culturale senza precedenti. Una situazione che non consente di distinguere più, in una piazza piena di giovani – scrive Pasolini – un operaio da uno studente, un fascista da un antifascista. Distanze che non hanno più confine. E se pensiamo che si tratta di riflessioni partorite a soli sei anni di distanza dal 1968 e dai suoi moti illusori di cambiamento, arriviamo a percepire quanto sia pericolosamente deragliato, oggi, quel confine, e quanto la voce di Pasolini, già molto criticata all’epoca, resterebbe inascoltata oggi. Una voce di minoranza, che come tutte le minoranze, è figlia del donchisciottismo. Una presa di posizione che viene sempre isolata: Ovadia cita il documento delle suffragette americane contro la guerra, apostrofando Churcill con un epiteto che non conosce equilibri (“Grandissimo figlio di puttana“). Non solo. Parla di Einstein, tra i pochissimi a firmare il manifesto contro la guerra del 1913 andando decisamente controcorrente rispetto alla maggioranza di chi invece aveva salutato con favore l’intervento armato. E fa capire quanto, ancora oggi, i ‘soloni moderati’ che predicano l’esportazione della democrazia procedano senza dare spazio a chi ha il coraggio di andare controcorrente.
Parole che risuonano in una platea attenta e letteralmente rapita, che ascolta l’invettiva di Pasolini contro la perduta innocenza culturale del nostro paese, ma anche la colpevole incapacità, da parte della sinistra, di riuscire a intervenire per impedire le stragi fasciste di Milano (1969) e Brescia (1974). Un fascismo che, secondo Pasolini, “non è umanisticamente retorico, ma americanamente pragmatico“, che trae origine dall’ignoranza e dalla volontà di omologazione. A chi scrive risuonano in mente il brano di Antonio Gramsci contro l’indifferenza (“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano“), e “La storia” di Francesco De Gregori (“e poi ti dicono: tutti sono uguali, tutti rubano alla stessa maniera, ma è solo un modo per convincerti a restare chiuso dentro casa quando viene la sera…“). Tra un tango e l’altro (tra cui il famosissimo “Volver” di Gardel e il sovietico “Sole ingannatore“, dedicato platealmente da Ovadia agli undici esponenti del PD recentemente epurati dalla commissione Affari Costituzionali), voci che spaziano dalla politica alla poesia, come quella del greco Jannis Ritsos e del siciliano Ignazio Buttitta. Del primo Ovadia cita la forza delle sue liriche sociali e la capacità di perdonare il suo più acerrimo torturatore, del secondo l’umanità e la carnalità che scaturisce dall’uso del dialetto, con la lettura di alcune liriche e una prefazione scritta dallo stesso autore di origine friulana.
Al termine dello spettacolo, qualcuno osserverà che aver dato spazio agli “Scritti corsari” del 1974 abbia significato far prevalere parole che possono risuonare di difficile comprensione in una realtà come quella presente, nella quale gli equilibri politici sono radicalmente mutati. Questo rappresenta, inevitabilmente, il limite di uno spettacolo come quello di Ovadia, al quale rimproveriamo forse l’assoluto rigore nel riproporre gli scritti pasoliniani più contestualizzati nella realtà dell’epoca, che affrontano tematiche (una su tutte, quella del referendum sul divorzio) che risuonano drammaticamente lontane nel tempo. Avremmo preferito che si spaziasse tra la letteratura pasoliniana, scorgendo estratti derivanti dalla sua vastissima produzione. Estratti dai suoi romanzi, le sue poesie, la presa di posizione contro la televisione, per esempio, ma anche le sue osservazioni a margine del “Vangelo secondo Matteo” – citato per il coraggio del regista di scegliere per la parte di Gesù un attore diverso dall’immaginario collettivo che voleva Cristo alto e biondo – che pure hanno innumerevoli rimandi all’attualità. Resta però il valore immenso di uno spettacolo di testimonianza, partigiano, con parole che si ergono a scuotere gli anni di plastica che ci vivono addosso, dominato da “voci di pollaio, piuttosto che da voci di coscienza“.
Idealista e visionario, forse un pazzo, forse un poeta, ama l’arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia…