La docuserie di Netflix riporta all’attenzione le vicende legate alla comunità fondata da Vincenzo Muccioli, aprendo il dibattito sulla bontà del suo metodo 

Gli anni ’70 in Italia sono passati alla storia, oltre che per il manifestarsi di conquiste sociali e per la dilagante violenza generata dal terrorismo di matrice politica, per l’esplosione di un fenomeno nuovo e dirompente: la tossicodipendenza. Nel 1972 l’eroina fece la sua comparsa in Italia, e ben presto, complice la progressiva disgregazione dei movimenti politici giovanili, le grandi città si trovarono a fronteggiare un fenomeno che si sarebbe allargato a macchia d’olio fino a toccare anche i piccoli centri. L’immagine del drogato era quella del balordo, dell’alieno, ma anche del soggetto totalmente pericoloso e, in quanto tale, da isolare, da ghettizzare, da rimuovere. Un peso per la società, ma soprattutto una tragedia per le famiglie, considerando che lo Stato faceva ben poco per fronteggiare un fenomeno che era ‘piaga sociale’ solo a parole, solo in astratto, visto che la società stessa lo rifiutava e le istituzioni non facevano nulla di concreto in proposito. Si comprende perciò benissimo quale impatto abbia avuto, in un simile contesto, l’idea folle e balzana, ma soprattutto rivoluzionaria, di Vincenzo Muccioli, imprenditore riminese che nel 1978 decise di inaugurare, nel comune di Coriano, in un casolare di famiglia, la comunità di recupero per tossicodipendenti San Patrignano, che prese il nome dalla frazione del comune in cui si trovava il casolare.

Muccioli e sullo sfondo la comunità di San Patrignano in una foto del 1985.

Intorno alla comunità, attiva ancora oggi con più di duemila presenze, è tornato recentemente a ravvivarsi un certo clamore dovuto alla diffusione di “SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano“, la docuserie tv prodotta da Netflix che riporta alla memoria collettiva quell’esperienza. La docuserie, prodotta e sviluppata da Gianluca Neri per 42, scritta dallo stesso Neri con Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli con la regia di Cosima Spender, riporta le testimonianze di chi fu ospite a San Patrignano nel momento di sua maggiore esplosione, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, subendo sulla propria pelle un metodo non certo leggero, che se in teoria era ispirato a principi di accoglienza e convivenza familiare, in realtà non disdegnava la violenza e il ricorso alla brutalità della segregazione pur di allontanare la droga dalla vita di ragazzi e ragazze che a migliaia avevano chiesto aiuto a Muccioli. Il fine giustificò i mezzi? Domanda che non ha una risposta, inevitabilmente.

Ma la docuserie non cerca risposte e, a differenza di quanto si voglia insinuare da parte di qualcuno, non ha intento accusatorio né di condanna verso una figura unica quale quella di Muccioli. E’ un efficace e documentato lavoro di inchiesta giornalistica, che a nostro avviso cerca piuttosto di analizzare lo stato delle cose, ripercorrendo i successi e le cadute di una comunità nata quasi per caso e poi cresciuta anno dopo anno, arrivando a superare in quattro decenni diversi momenti di crisi, culminati nel 1995 con la morte di Muccioli. Lo fa attraverso la voce di chi può raccontare la propria esperienza perché grazie a Muccioli ha riacquistato una vita altrimenti perduta per sempre: è il caso di Fabio Cantelli, già ospite e addetto stampa della comunità, di Walter Delogu, autista di Muccioli e poi suo principale accusatore, di Paolo Negri, Luciano Nigro, Antonella De Stefani.

Fabio Cantelli: la sua è tra le testimonianze più forti di “SanPa”.

 

Ma lo fa anche attraverso le testimonianze di chi, nella comunità, ha perso un proprio caro: è il caso soprattutto del fratello di Nadia Berla, una ragazza suicidatasi nel 1989, e del figlio di Roberto Maranzano, un giovane morto nello stesso anno a causa delle percosse subite in comunità, il cui corpo venne ritrovato addirittura in Campania, e la cui verità sulla sua triste fine emerse dopo ben quattro anni scatenando un caso di cronaca che minò fortemente l’integrità di Muccioli e della comunità stessa, nonché probabilmente il suo stato di salute che lo portò alla morte avvenuta nel settembre 1995.

Paolo Negri, ex ospite di San Patrignano, in una scena di “SanPa”

SanPa ha il merito, non scontato quando si tratta di un prodotto televisivo, di rendere giustizia alla verità, quella stessa verità attraversata da tante facce, e la cui complessità si fa tutt’uno con l’ingenuità delle azioni di Muccioli e con il suo narcisismo superomista che lo portò sempre a fidarsi di se stesso e delle sue scelte di affidare il controllo a persone dalla dubbia condotta morale, a scapito della sorte di pochi sfortunati che non ebbero la forza di uscire da San Patrignano con le proprie gambe. Ha, inoltre, il merito di chiarire quanto ipocrita sia stato il contributo dello Stato italiano, incapace di curare e di assistere i tossicodipendenti ma prontissimo solo a giudicare penalmente, e di aprire la discussione e il confronto sulla bontà di un metodo che – e l’esperienza di ecumenismo anarchico di don Andrea Gallo lo dimostra appieno – non era e non è certamente l’unica strada da intraprendere.

SANPA – Luci e Tenebre di San Patrignano (Italia, 2020, docuserie tv). Scritta da Gianluca Neri, Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli. Regia di Cosima Spender. Prodotta da Gianluca Neri con 42. Su Netflix.

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