Lo scorso anno, all’indomani della scomparsa di Silvio Berlusconi, ho atteso diversi giorni prima di pubblicare questo articolo, perché non volevo unirmi né al coro delle prèfiche né a quello degli sciacalli. Volevo semplicemente rispettare il dolore dei familiari per la perdita di un loro congiunto. Premesso ciò, credo che scrivere un articolo sulla sua figura in quanto uomo pubblico sia stato doveroso, sia pure analizzarlo al passato faccia un certo effetto. Parlarne significa cristallizzare in remoto, con implicazioni radicate nel presente, mezzo secolo di storia italiana, in un intreccio incredibile che mette insieme come non mai imprenditoria, televisione, spettacolo, sport, politica, giustizia, cronaca, gossip. Berlusconi è stato indubbiamente il personaggio pubblico italiano per eccellenza degli ultimi decenni, quello che ha monopolizzato il costume nostrano spazzando via vetusti archetipi del passato. “Nel bene e nel male, purché se ne parli”, diceva Oscar Wilde. E di Berlusconi se ne è parlato e se ne parlerà ancora, eccome.
500 milioni al giorno
La sua storia è stata un misto di luci e ombre. Da venditore di elettrodomestici a costruttore (o novello urbanista, come oggi, neanche fosse Renzo Piano, addirittura viene salutato da qualche voce adorante), il passo è stato breve. O meglio, accelerato, come già si insinuava all’inizio della sua epopea. Riavvolgiamo il nastro al marzo 1976, pochi mesi prima della storica avanzata elettorale del PCI di Enrico Berlinguer. In quei giorni, Giorgio Bocca si chiedeva: “Milano è la città in cui un certo Berlusconi costruisce Milano 2, cioè mette su un cantiere che costa 500 milioni al giorno. Chi glieli ha dati? Non si sa. Chi gli dà i permessi e dirotta gli aerei dal suo quartiere?”. Per trovare qualche risposta, sarebbe bastato leggere una successiva intervista di Camilla Cederna su L’Espresso del 10 aprile 1977, che svelava profeticamente tutto. In quell’articolo c’era infatti quello che il magnate figlio della buona borghesia milanese (padre bancario, mamma segretaria d’azienda) aveva in mente per il proprio futuro: edilizia, televisione, politica. E con loro lo sport, visto che il sogno di acquistare il Milan calcio era coltivato pubblicamente già da allora. “Un uomo non tanto alto, con un faccino tondo da bambino coi baffi, nemmeno una ruga, e un nasetto da bambola” – così lo definisce la Cederna – che aveva fatto dell’intraprendenza un’arte. Scuole dai salesiani come si conveniva a un rampollo meneghino di buona famiglia, un passato da entertainer sulle navi da crociera insieme al suo amico Fedele Confalonieri che gli sarebbe restato accanto tutta la vita, una laurea a pieni voti in Giurisprudenza all’Università di Milano con una tesi dal titolo “Il contratto di pubblicità per inserzione” – destinataria del premio “Giannino Manzoni”, come menzionato sul Corriere della Sera del 22 dicembre 1961 – e l’inizio dell’attività edile (prima Cantieri Riuniti Milanesi, poi Edilnord) grazie a una fideiussione di 190 milioni concessa dalla Banca Rasini di Milano, presso la quale il padre Luigi lavorava come procuratore. Peccato che fosse lo stesso istituto di credito indicato da Michele Sindona come la principale banca usata dalla mafia nel nord Italia per il riciclaggio del denaro sporco. E che in molti abbiano insinuato che quel denaro, insieme ad altri soldi provenienti da conti cifrati svizzeri, venisse poi ripulito e riciclato in affari. I famosi soldi che sarebbero apparsi piovuti dal cielo sulla sua scrivania in una scena de “Il caimano”, film di Nanni Moretti del 2006 divenuto icona dell’antiberlusconismo militante. Case per tutti, con cui tappezzare l’hinterland milanese e creare il mito. A proposito di case e mito, impossibile non citare Villa San Martino ad Arcore, finita nel 1974 nelle mani del non ancora Cavaliere (lo sarebbe diventato nel 1977, nominato dall’allora Presidente della Repubblica Giovanni Leone, ritratto sorridente in una foto d’epoca mentre gli conferisce l’onorificenza) al termine di un’operazione quantomeno degna di Collodi, ma a tinte noir. Una villa di 3.500 metri quadri, un tempo monastero benedettino, completa di pinacoteca, biblioteca con diecimila volumi, arredi e parco con scuderia, che sarebbe stata quotata 7,3 miliardi e che fu invece acquistata per soli 250 milioni, grazie all’opera persuasiva di Cesare Previti in veste di pro-tutore della proprietaria nonché orfana e unica erede, la marchesina Anna Maria Casati Stampa di Soncino. Giova aggiungere che per qualche anno quella villa sarebbe divenuta dimora abituale per Vittorio Mangano, di professione stalliere dei puledri berlusconiani e per hobby affiliato a Cosa Nostra. Una personcina da Ambrogino d’oro, insomma, che a Berlusconi era stato raccomandato dal suo fraterno amico Marcello Dell’Utri, palermitano, ma soprattutto amico degli amici, che aveva preso in cura i volumi della biblioteca. Già così la situazione, a fine anni ‘70, era stata ampiamente delineata. Era la Vita Nova di un Dante dell’affarismo che per poter stare al mondo aveva già fatto patti impronunciabili con i giusti interlocutori. Già nel famoso articolo, la Cederna aveva tracciato i legami che Berlusconi aveva con la destra DC milanese e con il PSI del sindaco Carlo Tognoli e soprattutto del giovane rampante neosegretario Bettino Craxi (che sarebbe stato suo testimone di nozze nel 1985). Lubrificare i giusti contatti, e aderire alle cordate che contavano, tipo la P2 del gran maestro Licio Gelli, alla quale Berlusconi si era affiliato nel 1978 con tessera numero 1816. Una situazione che in un primo tempo avrebbe addirittura negato affermando di non ricordare il come e il perché, e che poi avrebbe ammesso parzialmente dichiarando di non aver pagato nulla – falso, la ricevuta di centomila lire è viva e vegeta – e di averlo fatto per fare un favore al suo amico Roberto Gervaso. Una situazione, però, che gli avrebbe permesso di ottenere credito pressoché illimitato presso le banche (è stato calcolato che tra il 1974 e il 1981 furono disposti a suo favore fidi per circa 200 miliardi di lire e fideiussioni per oltre 150 miliardi) e il cambio delle rotte degli aerei spostando l’inquinamento da rumore da Milano 2 alla sezione nord-est di Segrate (vane furono le proteste dei residenti: non avevano santi in paradiso, loro). Risultato? Boom di guadagni per il novello Dante dell’edilizia, che in quel periodo diventa persino commentatore economico per il Corriere della Sera, gloriosa testata che in quel periodo era saldamente in mano a chi? Bravi, avete indovinato: alla P2. Scopa.
Dalle palazzine alle antenne
Dante, dicevamo. Il paragone non è azzardato. Perché, come il Sommo fiorentino, nonostante l’apprezzato repertorio poetico già lo avesse reso celebre tra i cultori del Dolce Stil Novo, non si era fermato alla Vita Nova per realizzare La Divina Commedia, il suo capolavoro in rima, anche al magnate milanese, che già aveva avviato una carriera da super ricco che stava portando avanti con raffinata spavalderia, quanto fatto appariva ancora nulla. Il capolavoro, anzi, i capolavori che ne avrebbero sancito l’unanime popolarità dovevano ancora arrivare. Il sogno era quello di “fare la televisione” (la televisiùn, per dirla alla Jannacci), e di farla seriamente, dando la spinta definitiva alla liberalizzazione del mercato fino a quel momento appannaggio della sola Rai che, al di là delle lottizzazioni, mediante la divulgazione popolare aveva a cuore le sorti della crescita culturale del paese. Anche qui, intraprendenza, spirito pionieristico e (ovviamente) tanti e tanti soldini fecero il resto. L’avvento della tv commerciale realizzata con cura e professionalità, e non con mezzi casalinghi come si faceva prima, rivoluzionò la cultura di massa in un paese che televisivamente parlando prima di allora aveva la professionalità come mantra, il rigore come linea, la qualità come misura. Ponti d’oro vennero offerti ai big della tv che prima in Rai guadagnavano più o meno come un dirigente lottizzato (non poco, ma neanche tantissimo). Il pioniere fu Mike Bongiorno, che lo aveva già seguito a Telemilano 58 negli anni della semicarboneria catodica. Poi, arrivarono Sandra Mondaini, Raimondo Vianello e Corrado e, più avanti, Pippo Baudo e Raffaella Carrà, quelle che l’immaginario popolare identificava come vere e proprie icone della tv di stato, che a un certo punto si trovò disarcionata come il cavallo di viale Mazzini. Berlusconi aveva dimostrato che tutto aveva un prezzo, e non solo in televisione. Anche nel calcio. La scalata al Milan, concretizzatasi nel 1986 per salvare la società da un sicuro fallimento, portò ai tifosi rossoneri gioie e soddisfazioni, con scudetti e coppe internazionali. E anche lì non mancarono i colpi di scena. Su tutti, il clamoroso acquisto del talentuoso Gianluigi Lentini, corteggiato a lungo, poi prelevato in elicottero e infine strappato a fine giugno 1992 dal Torino al Milan per la cifra record di 18,5 miliardi di lire. Per non parlare delle protezioni ottenute ai tempi di Calciopoli, nel 2006, quando la squadra rossonera fu graziata da gravi condanne grazie al ruolo giocato da Adriano Galliani, vicepresidente del Milan e presidente della Lega Calcio, verso il quale si prostravano ossequiosi diversi arbitri, e all’ingerenza che il Berlusconi affarista e politico aveva nei palazzi del potere. Re Silvio era a tutti gli effetti il Paperon de’ Paperoni d’Italia. O, che è lo stesso, Il Mangiafuoco del belpaese, colui che accontentava i sogni della gente soddisfacendone i più reconditi desideri. Tv e calcio erano il top della popolarità nazionale. E lui primeggiava in entrambi i settori. In una confidenza che sarebbe stata resa poi pubblica, Berlusconi definiva lo spettatore medio italiano “una persona provvista dell’intelligenza di uno che ha fatto la seconda media, e nemmeno tra i primi banchi”. Facile ipotizzare allora che davanti alla tv quello spettatore voleva vedere intrattenimento, battute e tormentoni non troppo complicati, qualche bella figliola meglio se prorompente e seminuda, e tanta, tantissima leggerezza. C’è un’immagine emblematica di quel periodo: credo fosse il 1983, su TV Sorrisi e Canzoni, rivista popolare che entrava in tutte le case, divenuta una testata di famiglia a seguito di operazioni poco chiare che odorano ancora di corruzione (lodo Mondadori), apparve un sorridente Pier Silvio Berlusconi allora adolescente in mezzo alle ragazze di Drive In. Il cerchio si era chiuso. Sorrisi, appunto. Già. Anche perché la simpatia è da sempre elemento imprescindibile per il successo. E Berlusconi era simpatico. Fateci caso. Molto spesso è stata ricordata la sua disponibilità, il suo savoir faire. In una parola, la sua simpatia. “E vabbè, però è simpatico!”: quante volte ho sentito questa frase in risposta alle mie argomentazioni critiche sul personaggio. Dono innato, certo, ma anche costruito ad arte per vendere il proprio appeal e indirettamente acquistare la fiducia dello spettatore prima e dell’elettore poi. La propaganda ha fatto il resto. Tra gli aneddoti dei miei vent’anni inserisco anche un incontro con Silvio Berlusconi, decisamente casuale ma non per questo meno significativo. 27 Novembre 1991, Arcavacata di Rende, all’Università della Calabria la giornata della sua Laurea honoris causa in Ingegneria Gestionale. Una scelta assai discutibile compiuta dall’ateneo in cui studiavo attraverso il Preside di Ingegneria prof. Jacques Guenot per cercare di garantire al neonato corso di laurea uno sponsor importante, cosa che nei fatti non sarebbe mai avvenuta. All’epoca Silvio Berlusconi era nell’immaginario collettivo patron di Canale 5, Mondadori, Standa e presidente del Milan. La politica era ufficialmente lontana perché lontano (ma non per troppo) era Tangentopoli, con Craxi ancora amico prezioso e intoccabile. Ricordo che dopo la cerimonia per la consegna della laurea ci fu un rinfresco in piedi e il neodottore fu gentile e cordiale con tutti, inclusi noi giovani studenti di Ingegneria. Un mio collega, per fare il simpatico, gli disse: “Complimenti per il Milan… anche se io sono dell’Inter!”. Lui sorrise a millemila denti e tendendogli la mano gli replicó pronto, tra le risate generali, che se avesse avuto la possibilità di trascorrere una serata con lui, sicuramente alla fine lo avrebbe fatto diventare tifoso milanista. Questo era Berlusconi. Convinto e convincente, di essere il più bravo, il più simpatico, il più potente, il più furbo. Il più. Per la cronaca, quella laurea rimase lì, Berlusconi non la citò quasi mai in pubblico, all’Unical arrivò qualche soldo, ma nulla più. La Calabria restò terra di conquista, anche e soprattutto per lui: tornò da queste parti, da politico, per raccogliere voti e disseminare battute che secondo lui facevano ridere. La peggiore? Quella, a Tropea, il 23 gennaio 2020, riservata alla compianta Jole Santelli, sua candidata e futura presidente della Regione (“La conosco da 26 anni e non me l’ha mai data“). Alcuni storsero il naso, altri sorrisero a denti stretti. Ma lui passò oltre, come aveva sempre fatto.
Un nuovo miracolo italiano
La politica conobbe ufficialmente Berlusconi a partire dal 1994, quando vinse le elezioni del 27 e 28 marzo per il rinnovo del Parlamento con un movimento, Forza Italia, che aveva creato appena pochi mesi prima. Una rivoluzione di antipolitica nata dalle conseguenze di Tangentopoli, che nei due anni precedenti aveva smantellato la Prima Repubblica non senza conseguenze: arresti, suicidi, fughe (la latitanza tunisina di Craxi) e la dissoluzione di DC e PSI, che dal dopoguerra avevano garantito governabilità al paese. Eppure Berlusconi non era affatto nuovo. Sì, lo era ufficialmente, non avendo mai avuto esperienze politiche dirette. Ma certo non lo era di fatto, essendo lui stesso e il suo business legati a doppio filo alla politica perché grazie alla politica cresciuti e diventati potenti. Ma alla politica da politico, Berlusconi arrivò non senza tentennamenti. Gli inviti a creare i club Forza Italia, attivi già a fine 1993 (dopo le monetine del Raphael) e forti di una martellante campagna pubblicitaria con tanto di jingle ammiccante, erano stati numerosi e giungevano dai punti più strani. Mi imbattei per caso in una di queste riunioni, una sera d’inverno, in una sala della mia parrocchia concessa credo per eccesso di ingenuità a quella che sembrava essere un’assemblea condominiale o un raduno di venditori porta a porta. Giacca e cravatta, sorrisi a trentadue denti, rampantismo sfrenato. Era il nuovo che stava avanzando in un paese divenuto terreno di conquista, nello spazio lasciato libero dal crollo delle forze politiche moderate e nell’incapacità di un politico come Mariotto Segni di raccogliere il testimone ideale che gli avevano messo in mano gli italiani dopo la vittoria al referendum sulla riduzione dei voti di preferenza. La storia politica di quel 1993 racconta di un Berlusconi particolarmente attivo per cercare di ricollocarsi politicamente, all’inizio senza esporsi. Ma dopo i contatti non proficui con Segni e Mino Martinazzoli, ultimo segretario della DC, e la rinuncia all’idea iniziale di sposare l’idea della Lega di Umberto Bossi ingentilendone la rozza logica secessionista, la decisione di assumere un ruolo da protagonista prese sempre più piede. Per necessità, si disse, per gradimento (i sondaggi commissionati dai suoi yes man lo davano ovviamente in testa alle preferenze come persona più simpatica d’Italia) ma anche per un innato senso di narcisismo. La sua “discesa in campo”, ufficializzata con un celebre videomessaggio diffuso il 26 gennaio 1994 (ero a pranzo da amici, lo vidi in un piccolo televisore, ci fece ridere incautamente) prometteva da parte di chi sosteneva di amare il proprio paese l’impegno per “un’Italia più giusta, più generosa verso chi ha bisogno, più prospera e serena, più moderna ed efficiente, protagonista in Europa e nel mondo” e in contrasto con quanto proposto da una “sinistra illiberale” che invece a suo dire non credeva “nel mercato, nell’iniziativa privata, nel profitto, nell’individuo“ e che era ancorata “a un passato politicamente ed economicamente fallimentare”. E che, soprattutto, era complice di “un retaggio ideologico” che faceva “a pugni con le esigenze di una amministrazione pubblica che voglia essere liberale in politica e liberista in economia”. A queste dichiarazioni si accompagnava, manco a dirlo, una campagna pubblicitaria martellante, in cui il messaggio berlusconiano era improntato al progresso, alla conciliazione, alla libertà. Chi non era d’accordo veniva tacciato con un solo aggettivo: “comunista”. Sì, perché, in quei primi mesi del 1994, proprio grazie a Silvio Berlusconi in molti abbiamo scoperto di essere comunisti perché tacciati di essere nemici del progresso e della felicità. Nonostante la caduta del muro di Berlino, nonostante in Italia il comunismo non avesse mai realmente governato, Berlusconi diceva che i comunisti erano pericolosi, in una strana assonanza indovinate con chi? Con Totò Riina, che in una gabbia di tribunale davanti ai giornalisti diceva più o meno le stesse cose. Ma torniamo a Berlusconi. Per lui i comunisti erano pericolosi perché avevano messo le mani sulla Rai, detenevano il potere culturale e minacciavano la libertà di informazione. E, per Berlusconi e per i berluscones, i suoi seguaci molti dei quali figli del PSI craxiano e dell’ala conservatrice della vecchia DC, comunista era chiunque non la pensasse come loro. Compreso Indro Montanelli, che certo comunista non lo era mai stato (!), il quale, dopo una collaborazione durata anni proprio alla vigilia delle elezioni del 1994 aveva deciso di sbattere la porta e di andarsene da “Il Giornale” (di cui Berlusconi era editore) per restare libero di non avere padroni politici e con la schiena dritta. A proposito di libertà, all’indomani della morte in molti hanno sostenuto che Berlusconi (meritorio di una candidatura al Nobel per la pace, come ebbe a dire nel 2002 l’on. Antonio Gentile di Cosenza) abbia difeso la libertà. Quasi come un partigiano che diventa tale per proteggere e salvare il proprio territorio dall’invasione nemica. Un padre della patria, insomma. Definizione calzante e realistica, ma solo se per patria si intende la propria azienda e non certo il proprio paese, quello per il quale i partigiani (quelli veri, rossi, bianchi, comunisti, cattolici, socialisti, azionisti) negli anni ‘40 avevano combattuto il nazifascismo. L’esercito di Forza Italia invece era composto anzitutto da dirigenti Fininvest e Publitalia, manager al soldo di Berlusconi che avevano imparato a memoria un testo come L’arte della guerra di Sun Tzu (Dell’Utri era stato abile stratega nel diffonderlo) applicandone le logiche e i segreti al mondo del marketing. Traslare quelle idee e quei concetti alla politica fu il vero colpo di genio. D’altronde, come il telespettatore, anche il cittadino italiano si trovava spaesato davanti a un’Italia in cui erano saltati tutti gli equilibri che avevano retto fino a quel momento. Orfani di un sicuro approdo sulla schiena della DC, balena bianca ormai catturata dall’Achab Di Pietro, gli italiani avevano perso la bussola. Ci pensò la televisione a rimodulare gli equilibri attraverso una nuova propaganda. Non quella veteromarxista alla quale forse non credeva più neanche Bertinotti. Propaganda qualunquista. Ecco. Se proprio c’è un merito da ascrivere a Berlusconi, è quello di aver reso una virtù il qualunquismo. Di aver dato via libera al populismo. Lui, che si era servito della politica per diventare grande, si poneva al vertice dell’antipolitica, sfidando i partiti. “Il nuovo che avanza”: ve lo ricordate questo slogan? Era sempre la campagna elettorale del 1994, quella della sua discesa in campo. Con le marchette promozionali sulle sue reti da parte dei suoi ossequiosi dipendenti (Mike Bongiorno, Vianello e Mondaini, Emilio Fede) che in un rigurgito di servilismo fantozziano ne tessevano le lodi come un Calboni qualsiasi. E non erano solo i grandi a essere instradati verso il voto. Anche i più giovani ne erano influenzati. Anche qui, a tutto contribuì il piccolo schermo. Altro che tribuna politica: ci pensava Ambra a “Non è la Rai” a indirizzare gli italiani. Berlusconi veniva dipinto come l’angioletto buono contrapposto al diavoletto Achille Occhetto, la cui eccessiva serietà e ingessatura da vecchio professore rendeva impari il confronto con la spigliatezza e il fascino del Cavaliere sorridente in doppiopetto e cravatta regimental. Per gli italiani ci voleva lui, con la sua bravura e il suo decisionismo, a risollevare le sorti dell’Italia. Un maquillage destinato a far brillare di luce riflessa anche chi, come i post-fascisti di Gianfranco Fini, mai avrebbe sognato di entrare in Parlamento da protagonista. Ma erano solo facce nuove quelle dei berluscones? Certo che no. Accanto ai volti di neofiti della politica, assoldati per la bella presenza (come sarebbe accaduto spesso anche in futuro, dove giovani starlette, evidentemente folgorate sulla via di Arcore, avrebbero scoperto la vocazione politica) c’erano marcantoni della preferenza di scuola democristiana e socialista. Persone, anzi personaggi abituati a buttarsi sempre con il vincitore. Eppure. Il messaggio berlusconiano apparve luccicante come quello di un novello Aladino, pronto a risanare l’Italia con le sue scintillanti promesse. “Un milione di posti di lavoro” fu quella più gettonata. Il nuovo miracolo italiano prese vita e colpì nel segno. La sera di Lunedì 28 Marzo 1994, mentre un commosso Emilio Fede si spingeva verso vette inarrivabili con il suo scendilettismo giornalistico e Nanni Moretti si consolava con una canna fumata davanti alla madre Agata, gli italiani presero atto dell’inizio di una nuova stagione politica e sociale. Ricordo una delle prime scene del Berlusconi neopremier. Sorriso da lotteria e a fianco a lui (se non sbaglio gli aveva appena aperto lo sportello dell’auto) Franco Covello, big della DC calabrese soddisfatto quanto lui di aver puntato ancora una volta sul cavallo giusto. Eppure il primo esecutivo Berlusconi non fu affatto lungo. Colpito dalle indagini del pool di Di Pietro e dal tradimento di Bossi, il premier milanese non mangiò il panettone a Palazzo Chigi. La sua carriera politica sembrava destinata ad esaurirsi, e così la sua influenza imprenditoriale, che risentiva ancora di quel fatidico “conflitto di interessi” che doveva rappresentare il grimaldello per scardinarne la forza. Per dovere di cronaca occorre chiamare in causa a questo punto le responsabilità di ciò che fece (o che non fece) quel centrosinistra che nel 1996 sembrava aver trovato la ricetta giusta grazie all’Ulivo e alla candidatura unitaria di Romano Prodi, signore di nome e di fatto. La sua vittoria alle elezioni di quell’anno, coincisa con un indebolimento della coalizione di centrodestra privato dell’apporto della Lega di Bossi, aveva ridimensionato le ambizioni del Cavaliere. Ma i suoi detrattori politici non avevano fatto i conti con le guerre interne alla sinistra, da sempre la causa di tutte le sconfitte del campo progressista in Italia. Ebbene, Prodi venne ostacolato più volte dal fuoco amico e infine disarcionato e costretto alle dimissioni nel 1998 per far posto a un esecutivo guidato da Massimo D’Alema, lo stesso che a Berlusconi aveva garantito nuova luce attraverso la Bicamerale e con il quale il Cavaliere nel giugno 1997 (insieme anche a Franco Marini e a Gianfranco Fini) aveva siglato il cosiddetto ‘patto della crostata’, ossia l’accordo informale sulle riforme costituzionali nel quale il segretario DS, degno erede di Tafazzi, si sarebbe impegnato a non fare andare in porto una legge sulla regolamentazione delle frequenze televisive che, se fosse stata approvata, avrebbe costretto il gruppo Mediaset a vendere una delle proprie reti, riducendo di fatto il valore dell’azienda. A ciò si aggiungano due episodi a ritroso, avvenuti nel 1994 e nel 1996, quando alcuni intellettuali che si richiamavano a Micromega, tra cui Paolo Sylos Labini, Roberto Borrello, Giuseppe Bozzi, Paolo Flores d’Arcais, Alessandro Galante Garrone, Ettore Gallo, Antonio Giolitti, Vito Laterza, Enzo Marzo, Alessandro Pizzorusso, Aldo Visalberghi avviarono una petizione per chiedere di far rispettare la legge 361 del 1957 che stabiliva l’ineleggibilità in Parlamento dei titolari di concessioni pubbliche di rilevante interesse economico. Entrambi i ricorsi vennero respinti dalla Giunta delle elezioni della Camera (e i parlamentari DS, ironia della sorte, votarono insieme al centrodestra, con l’eccezione di uno di loro, tale Luigi Bisignani, che ovviamente di lì a poco sarebbe stato fatto fuori politicamente) con la motivazione che secondo la legge non sarebbero stati eleggibili “coloro che in proprio o in qualità di rappresentanti legali di società o di imprese private” risultassero “vincolati con lo Stato per contratti di opere o di somministrazioni, oppure per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica”. Ebbene, secondo l’interpretazione che ne fu data, l’inciso ‘in proprio’ doveva intendersi ‘in nome proprio’, e quindi non applicabile a Berlusconi, in quanto lo stesso non era titolare di concessioni televisive in nome proprio, poiché ufficialmente il titolare era Confalonieri. Della serie: cavilli del burocratese in salsa di inciucio. Mi viene in mente un celebre sketch andato in onda nella trasmissione satirica L’ottavo nano nel 2001, in cui Corrado Guzzanti nei panni di Francesco Rutelli si rivolgeva a Berlusconi pregandolo di ‘ricordarsi degli amici’ in caso della sua probabile vittoria alle Politiche di quell’anno che avrebbe riportato il Cavaliere a Palazzo Chigi dopo quasi sette anni. Cosa che puntualmente avvenne, generando quello che tuttora resta il governo più longevo (ben 1412 giorni, quasi 4 anni) della storia repubblicana italiana.
Leggi ad personam e cene eleganti
L’anomalia Berlusconi era destinata a durare e a proliferare. Il Cavaliere avrebbe vinto ancora altre due volte, prima nel 2001 e poi nel 2008. in mezzo, una nuova vittoria di Romano Prodi (2006) che sarebbe stato nuovamente disarcionato dal masochismo del centrosinistra, che di fatto consentì a Berlusconi di fare il bello e il cattivo tempo a colpi di promesse in campagna elettorale e poi di azioni mirate a cambiare le carte in tavola secondo le proprie convenienze. A partire dal decreto Biondi del 1994, che vietava la custodia cautelare in carcere per i reati contro la pubblica amministrazione, passando per la legge Tremonti dello stesso anno, che detassava del 50% gli utili reinvestiti dalle imprese, alla legge sulle rogatorie internazionali del 2001, a quella sul falso in bilancio del 2002, alla legge Cirami, ai decreti salva-Rete4 e salva-Milan, al lodo Alfano, a quella che automatizzava il legittimo impedimento, le leggi ad personam consentirono al Cavaliere di virare secondo i propri desiderata, trasformando il Parlamento in un luogo a metà tra un consiglio di amministrazione di una propria azienda e un’aula del paese dei balocchi. La sensazione di impotenza degli italiani che credevano realmente nello stato e nel suo senso di giustizia, ma erano ormai stanchi essere presi in giro toccò il suo culmine il 5 aprile 2011, quando il Parlamento votò a maggioranza che Karima El Marough, ragazza di origine marocchina conosciuta ai più come Ruby Rubacuori, era effettivamente la nipote del presidente egiziano Mubarak, come aveva dichiarato Silvio Berlusconi in persona quando, nella notte tra il 27 e il 28 maggio 2010, aveva telefonato per ben cinque volte alla Questura di Milano per convincere gli agenti a consegnare la ragazza nelle amorevoli braccia della consigliera regionale lombarda Nicole Minetti. Una storia da libro Cuore per gli aficionandos del Cavaliere, pronti a sostenerlo per difenderlo strenuamente in tutti gli scandali sessuali in cui si era trovato coinvolto a partire dal 2008. Noemi Letizia, Patrizia D’Addario e il lettone di Putin, le Olgettine, il bunga bunga. Episodi al pari del tamburino sardo e della piccola vedetta lombarda, che il Silvio nazionale, come un novello Garrone, nel corso di quelle che chiamava “cene eleganti”, aveva sostenuto per fare del bene agli altri. O meglio, alle altre. Già, perché, guarda caso, le destinatarie delle sue attenzioni erano tutte ragazze, e ovviamente di bella presenza. Questi episodi sono stati la goccia che fece traboccare il vaso di un matrimonio nato sui rotocalchi, quello con Veronica Lario, la sua seconda moglie conquistata con un fascio di rose rosse una sera del 1980 quando era ancora un’attrice e si esibiva al Teatro Manzoni, di proprietà ovviamente del futuro marito. Un matrimonio impreziosito da tre figli (Barbara, Luigi, Eleonora) e assassinato con la triste eutanasia iniziata il 31 gennaio 2007 con una lettera aperta inviata al quotidiano La Repubblica in cui la Lario chiedeva al coniuge pubbliche scuse ritenendosi offesa dalle frasi galanti che lo stesso aveva pronunciato in pubblico verso alcune showgirl (“Se non fossi sposato, ti sposerei subito”) e conclusasi nel 2009 con una dichiarazione inequivocabile: “La strada del mio matrimonio è segnata: non posso stare con un uomo che frequenta le minorenni”. Ricordo di aver assistito, nel novembre 2008, a Vilipendio, lo spettacolo teatrale di Sabina Guzzanti. Tra i tanti sketch interpretati dall’attrice romana,a farmi davvero ribrezzo era stato quello proposto all’inizio dello show, in cui un Berlusconi sorridente, ripreso inizialmente solo in volto, invitava le signore presenti a prendere posto in sala. Poco dopo, l’inquadratura si allargava e si vedeva il premier in erezione (!) pronto a operare per soddisfare le voglie del suo moraviano lui. Precedenti di appena qualche mese erano state le prime intercettazioni in cui “Papi”, come veniva chiamato affettuosamente, dialogava con fare ammiccante con procaci fanciulle, e le dichiarazioni di Paolo Guzzanti, padre di Sabrina (un caso?) e già senatore di Forza Italia: “Siamo in presenza di un capo di governo che è circondato da pettegolezzi a sfondo sessuale. E questo è un danno per il Paese. Non faccio processi sommari, ma Berlusconi ha fatto della sua sessualità un evento politico e su questo, dicono anche alcuni del suo partito, prima o poi potrebbe inciampare”. In questa vicenda, triste e imbarazzante, per non dire altro, ha sempre colpito, nelle intercettazioni che sarebbero poi state rese pubbliche, la naturalezza con cui Berlusconi parli di ragazze con personaggi del calibro di Gianpaolo Tarantini, faccendiere barese che aveva il compito di procacciare le donzelle e portarle ovunque dove Sua Maestà desiderasse. In quelle conversazioni la linea del dialogo si sposta anche su altri ambiti. “Stasera ho due bambine piccole, che è tanto che non vedo. Una napoletana molto simpatica, molto dolce e un’altra bambina di 21 anni, brasiliana. Invitiamo anche le due cantanti cubane, la Gemma.., un’altra cantante, non lo so.., che cosa dici se chiamiamo anche Rossella [Carlo, all’epoca presidente di Medusa Film, ndr], che c’ha una ragazza che canta in Vaticano, molto brava, e magari invitiamo anche Fabrizio Del Noce, il direttore della fiction della rete Uno della Rai…così le ragazze sentono che c’è qualcuno che ha il potere di farle lavorare..“. Uno scenario inquietante, reso ancor più squallido dalla testimonianza di Giuseppe Spinelli, ragioniere e uomo di fiducia di Berlusconi sin dal 1978, che in tribunale già nel 2012 ammise di pagare, per ordine del suo principale, le varie ragazze che si intrattenevano a Villa San Martino e a Palazzo Grazioli. Eppure, di tutti i processi intentati contro il Cavaliere, solo uno, quello sul falso in bilancio, si è concluso con una condanna. Altri (lodo Mondadori, All Iberian, acquisto Lentini, corruzione per compravendita parlamentari, Unipol) hanno conosciuto la prescrizione. Per altri ancora, Berlusconi, inizialmente condannato in primo grado, in appello ha avuto l’assoluzione, anche se in alcuni casi la condanna per gli altri personaggi coinvolti nelle varie vicende è stata confermata anche in appello. E’ il caso, tanto per citarne due tra i più noti, della condanna a 7 anni di Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa e di quella, a 2 anni e dieci mesi, di Nicole Minetti per favoreggiamento alla prostituzione. Con questo non si vuole insinuare nulla (anche se i 30 milioni elargiti nel testamento all’amico degli amici la dicono molto, molto lunga), solo confermare quanto la figura di Silvio Berlusconi sia stata anomala e dirompente, ma nel senso più negativo del termine. Berlusconi ha probabilmente incarnato i sogni proibiti della maggior parte degli italiani (me escluso, ovviamente). Quelli che sotto sotto lo hanno sempre invidiato per lo stile, l’intraprendenza, i soldi e le tante avventure di letto di cui lui stesso si vantava, creando non pochi imbarazzi in chi gli era vicino. Appare evidente che un personaggio così potente e nel contempo così facilmente debole dal punto di vista umano abbia rappresentato un pericolo per la democrazia in Italia. Un uomo ricco e affascinante, ma fondamentalmente solo nel proprio narcisismo, capace di circondarsi solo di figure ossequiose, accomodanti, servili, ma incapace di coltivare legami profondi e duraturi, frutto di una naturale propensione all’amicizia non legata necessariamente al potere. C’è una scena iconica tratta da un film, Loro, di Paolo Sorrentino, che descrive la fase forse più burrascosa dell’esistenza berlusconiana, appunto quella legata agli scandali di natura sessuale. Il protagonista, magistralmente interpretato da Toni Servillo, tenta di sedurre una giovane studentessa che, una volta giunta nella sua villa per una festa, vorrebbe andarsene. La ragazza lo gela quando gli dice che la sua bocca “è impregnata dell’alito dei vecchi”. Ecco, in questa frase c’è il crollo del castello illusorio creato da Berlusconi sul suo presunto charme e sulla sua infinita giovinezza. Non occorre esporsi al pubblico ludibrio per farsi apprezzare come potente. Ci sono imprenditori che hanno fatto grande l’Italia (penso ai Ferrero, ai Del Vecchio) senza per forza ricorrere al clamore e all’ostentazione del proprio potere, senza corrompere alcuno, senza creare leggi a proprio uso e consumo, senza sfidare lo stato e farsene beffa.
Ha vinto lui?
In Inneres Auge, del 2009, Franco Battiato cantava: Uno dice che male c’è a organizzare feste private con delle belle ragazze per allietare primari e servitori dello Stato? Non ci siamo capiti e perché mai dovremmo pagare anche gli extra a dei rincoglioniti?”. All’indomani della morte di Berlusconi, su Libero, quotidiano che ha difeso per decenni la sua linea politica, Alessandro Sallusti, tra i suoi megafoni preferiti, ha scritto un editoriale dal titolo “Ha vinto lui”. Assolutamente d’accordo. Morto Berlusconi, non si esaurirà certamente il berlusconismo. Non torneremo ad essere, o almeno non sarà così immediato il processo, un paese in cui la sostanza venga prima dell’apparenza, in cui in tv ci sia spazio per reality e gossip, in cui gli scandali sessuali siano all’ordine del giorno per incrementare le vendite dei giornali scandalistici e generare hype tra il popolino. Se oggi ci sono ragazzi nati e cresciuti con lui e con il suo mito, che confusamente si uniscono alla pletora di giudizi positivi e concilianti verso il suo quarantennio da personaggio pubblico, e che magari presto si troveranno a percorrere strade, a frequentare istituti scolastici o a giocare in parchi a lui intitolati (sic!), significa davvero che ha vinto lui. Ma a che prezzo? Svendendo l’etica della politica e delle istituzioni, diffamando l’integrità dello stato, facendosi beffa delle leggi della democrazia, calpestando la dignità della donna e la moralità, quella vera, che accompagna il rispetto verso la sacralità della famiglia. E ancora, stringendo amicizie con i peggiori potenti del mondo e, cosa ancor peggiore, calcando la mano in atteggiamenti arroganti e pericolosi: uno su tutti, il gesto in cui accanto a Vladimir Putin, mima una mitraglietta contro una giornalista russa che aveva fatto una domanda scomoda contro il suo amico dittatore. No, per me Berlusconi non è stato e non sarà mai un esempio da seguire. E non è invidia sociale. Personalmente non conosco l’invidia, grazie al cielo sono cresciuto con altri valori. E provo sincera ammirazione verso chi si è prodigato per il bene comune in modo disinteressato, verso chi non è sceso mai a compromessi, verso chi ha fatto valere la propria forza non per il proprio conto in banca ma per le idee che rappresentava. Per loro sì. Ma non per Silvio Berlusconi, che sarà stato un grandissimo imprenditore (magari inizialmente con i soldi degli altri, di chissà chi), ma non credo sia stato un buon politico (sfido chi legge a elencarmi una riforma fatta da Berlusconi per il bene degli italiani) e il cui modello di vita era il commendator Bestetti, protagonista di una delle sue barzellette più celebri, quello che andava a troie tutte le sere e che veniva scoperto e malmenato dalla moglie. Silvio Berlusconi non avrà mai il mio rispetto per quello che è stato e per l’abisso in cui ha fatto sprofondare questo paese. E se davvero qualcuno con Sallusti pensa che Berlusconi abbia vinto, io rispondo che hanno perso gli italiani. Altro che Forza Italia.
Idealista e visionario, ama l’arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia…